Il Manifesto, recensione di Animali tristi di Jordi Puntì, ISBN 2005
Storie di malinconici tradimenti a Barcellona
«Animali tristi» Uscita per Isbn una raccolta di racconti del quarantenne Jordi Puntí, esponente della giovane narrativa catalana. Scene di vita quotidiana descritte con uno stile volutamente dimesso.
Anna Mioni
«Non sopporto quei romanzi in cui i personaggi sembrano telecomandati»: è una indicazione programmatica chiara quella che si trova all’interno di Animali tristi, raccolta di racconti del catalano Jordi Puntí (traduzione di Patrizio Rigobon, pp. 183, euro 13,50), appena uscita per le edizioni Isbn. Quasi quarantenne, Puntí – già autore di Pell d’armadillo, oltre che traduttore (fra l’altro di Paul Auster e Daniel Pennac) e redattore del País – è tra gli esponenti di punta della giovane narrativa della Catalogna, e da questo suo libro Ventura Pons ha tratto un film, Animales heridos, da poco uscito nelle sale spagnole.
Questa duplice suite di racconti, in cui le vicende dei protagonisti che si intrecciano tra loro, si apre con una descrizione delle vite di sei coppie che vivono nei quartieri residenziali di Barcellona. Vite normali, professioni altrettanto normali (due insegnanti, due impiegati, l’unico fuori del comune è uno sceneggiatore di finti documentari sugli extraterrestri). Tutto scorre con una naturalezza così priva di orpelli che a parlare potrebbe essere benissimo un amico. È questo l’artificio stilistico che usa Puntí per narrare la sua epoca: avvicinarsi al lettore, farlo sentire parte del libro, grazie anche alla descrizione continua di ambienti, gesti, oggetti del tutto quotidiani. Noie coniugali di coppie di lunga data, tradimenti veniali. E la massima Post coitum omne animal triste, suggerita dal titolo del libro, tocca il suo apice nel racconto «Cane che si lecca le ferite», con il suo adulterio pigro e indolente che si consuma nella calura estiva di una roulotte, e ha un epilogo quasi tragico di freddezza e violenza repressa.
Anche la seconda suite di racconti del libro, ambientata nel lussuoso attico di un quartiere ricco di Barcellona, cerca continuamente un aggancio con la realtà fissandosi sugli oggetti, che siano di arredamento o di uso quotidiano, oppure (nell’ultimo racconto in cui la domestica boliviana invita il fidanzato imbianchino a godersi l’attico in assenza dei padroni di casa) simboli di un lusso alla portata di pochi.
C’è molta sofferenza nel libro, mascherata da apparente semplicità. Ci sono ferite che la freddezza e la distanza non rendono per questo meno profonde. Il grande assente, forse, è proprio l’amore, quello vero. Ai tempi in cui viviamo, c’è forse da stupirsene?