Heather Lewis,
Attenzione
di Anna Mioni
Heather Lewis, l’autrice di Notice (Attenzione, Lain, 250 p., € 14,50), è morta suicida a quarant’anni nel 2002. Questo volume (il secondo dei suoi tre romanzi e il primo pubblicato in Italia) è finalmente uscito postumo nel 2004 (a opera del coraggioso editore inglese Serpent’s Tail); dal 1996 veniva rifiutato perché troppo crudo e scandaloso. Il libro funge da specchio oscuro, da altra faccia della medaglia del suo terzo romanzo, Second Suspect, che è un semplice noir, scritto dopo le sfortune di Notice per narrare vicende simili in modo più distaccato e meno minaccioso. C’è chi afferma, tra i critici americani, che Attenzione sia un vero e proprio testamento dell’autrice, tante sono le coincidenze tra la vita della protagonista e quella tragica di Heather Lewis: di origini alto-borghesi (nipote della fondatrice del Reader’s Digest), subì violenza dal padre quand’era bambina, conobbe il riformatorio e l’alcolismo; riuscì a uscirne e a condurre una vita normale, per poi ricascare nella dipendenza dopo l’insuccesso del terzo libro, poco prima del suicidio. Attenzione rientra quindi nel filone delle storie sconvolgenti e scabrose ma autentiche, come molti libri pubblicati in quegli anni negli USA, raggruppati sotto l’etichetta di “New narrative” (Dennis Cooper e Dale Peck sono noti anche in Italia, per esempio) e bollati dai detrattori reazionari come “Victim art” a causa dell’assenza di un lieto fine o di una redenzione dopo le tragiche vicende autobiografiche oggetto della narrazione. È proprio la fame di attenzioni suggerita dal titolo (anche in inglese: Notice), oltre a un passato di violenze subite e riformatorio, che spinge Nina (il nome che la protagonista usa come prostituta, e non ne scopriremo altri) a lasciare un lavoro “normale” per vendere il suo corpo ai pendolari che escono dalla stazione. C’entra anche il bisogno di soldi per qualche saltuaria dose di droga, ma questo è solo un problema secondario. Quello vero è una depressione schiacciante, un buco nero, una voragine che minaccia a ogni minuto di aprirlesi dentro, e che lei cerca di riempire in ogni modo, con l’alcol, con la droga ma soprattutto con il sesso, che per lei rimane l’unica forma di comunicazione emotiva di cui è capace. Rimane invischiata in un ménage à trois con un cliente sadico e sua moglie Ingrid (ai quali ricorda la figlia, forse uccisa dall’uomo). Tra lei e Ingrid c’è la parvenza di una complicità amorosa, ma sempre all’ombra inquietante del marito. Poi Nina fugge e dopo varie vicissitudini viene rinchiusa in un manicomio dove subisce stupri e maltrattamenti; lì incontra Beth, una psicoterapeuta che prende a cuore il suo caso, la fa rilasciare e le trova un lavoro. Purtroppo Nina conosce solo il sesso come metodo di interazione: si innamora di Beth e la trascina in una relazione dipendente e malata, che incrina il matrimonio dell’altra, ma soprattutto vanifica ogni effetto positivo della terapia. Nina lascia il lavoro e torna a battere in stazione. Nella sua vita ricompare ogni tanto anche Ingrid, in fuga dal marito. E poi ci sono gli incontri occasionali con due spacciatori di cocaina (mandati dal marito di Ingrid), che finiranno per stuprarla barbaramente. Non si sfugge insomma a una spirale distruttiva di sesso fatto e subìto senza amore, di amore capace di esprimersi solo tramite il sesso, di violenza fisica e psicologica. La protagonista si adegua a tutto, purché serva a tenerla lontana, assorbendo la sua attenzione, dalla voragine depressiva interiore che risucchia qualsiasi cosa. L’introspezione si limita a prendere atto del danno e della sofferenza, senza saperle motivare o fermarsi ad analizzarle. Nei rari momenti di lucidità, Nina raggiunge la tragica conclusione di essere un capro espiatorio, destinata a far emergere la parte peggiore delle persone con cui si rapporta e ad assorbirla in sé, e poi essere abbandonata. Qui risiede l’originalità del libro: nella descrizione distaccata e quasi impassibile dei propri vissuti drammatici, mai spettacolarizzati, e nella totale desolazione, che non lascia speranza di salvezza. Nel puro distillato di dolore che urla il proprio strazio verso chi legge, nella tragedia della bambina violentata che è incapace di scindere l’amore dai soprusi e dal ruolo di vittima. E’ difficile assistere come lettori a una tale sequela di violenza e sconforto restando impassibili, e non aiuta lo stile inquietante dell’autrice: scarno, informale, e ricco di ritornelli (ben resi dalla traduzione spigliata di Clara Nubile). La lingua così piana contrasta con la complessità della devastazione psichica ed emotiva in un libro che si vorrebbe poter dimenticare, ma che rimane dentro per la sua brutale sincerità.