Il Manifesto, recensione di Non c’è scampo di Jack Black, ALET 2006
Un fuorilegge dietro la «beat generation»
A 80 anni dalla prima uscita negli Usa, Alet pubblica «Non c’è scampo», autobiografia
di Jack Black, maestro di Burroughs
Anna Mioni
«Il pensiero di lavorare mi era estraneo… Sapevo che c’erano modi più sicuri per guadagnarsi da vivere, ma erano i modi dell’altra gente, che non conoscevo e non capivo, e che non volevo conoscere o capire…
Rappresentavano la società… La società era un nemico. C’era un alto muro tra me e la società: un muro che forse avevo eretto io, ma non ne ero certo»: non appare certo sorprendente, di fronte ad affermazioni come queste, che William Burroughs, leggendo a tredici anni You Can’t Win di Jack Black, ne rimanesse profondamente colpito e considerasse anche a distanza di molti anni questo libro come una delle opere da cui era stato più influenzato. Maggiore stupore può invece suscitare il fatto che il testo, uscito negli Stati Uniti nel 1926 con molto successo, sia poi scomparso per diversi decenni e sia stato ripubblicato in America soltanto nel 2000 da Ak Press/Nabat. A distanza di qualche anno il libro è finalmente approdato anche in Italia, con il titolo Non c’è scampo, per i tipi di Alet (traduzione di Federica Angelini, pp. 373, euro 16), preceduto da una breve ma entusiastica prefazione proprio di Burroughs.
Di Jack Black si sa pochissimo: solo che nacque nel tardo Ottocento e morì annegato (forse suicida) negli anni Trenta del Novecento, dopo essersi riabilitato e avere svolto la professione di bibliotecario a San Francisco. Restano inoltre un paio di suoi articoli per Harper’s Magazine in cui perora la causa dei detenuti, chiedendo condizioni più umane e cercando soluzioni più efficaci di riabilitazione. La narrazione di Non c’è scampo si ferma però intorno agli anni Dieci, e ripercorre passo passo la vita dell’autore, a partire dalla perdita della madre da bambino, che comportò il suo trasferimento in un collegio di suore. Finita la scuola a quattordici anni, dopo poco Black si trasferì a Kansas City con il padre. Insofferente alla vita in città, Black si mise in strada giovanissimo, in modo quasi inconsapevole: «Era primavera. Il tramonto mi colse a chilometri di distanza su una strada di campagna… Non mi sembrava strano il fatto di non avere una cena né una stanza per la notte». Fu un incontro fortuito con due vagabondi sotto un ponte a farlo diventare un hobo nel senso più classico: viaggi nei vagoni dei treni merci, notti sotto le stelle, apprendistato da ladro e scassinatore. Durante un soggiorno in prigione Black entrò a far parte dell’élite e conobbe George mezzo-piede e Sanctimonious Kid, che in seguito diverranno i mentori della sua vita criminosa. Comincia così una serie di furti, rapine, soggiorni in carceri di ogni tipo e dimensione tra Stati Uniti e Canada, spostamenti in treno da una parte all’altra del continente, seguendo le stagioni, i flussi dei vagabondi o una buona «dritta» per una rapina. Black e soci commettono colpi da migliaia di dollari, che poi dilapidano al gioco. Più volte nella vita l’uomo avrebbe a portata di mano l’occasione per rientrare nella legalità, ma la coglierà solo alla fine, quando ormai ha sperimentato il carcere duro, le frustate e i carcerieri aguzzini.
Di ogni impresa Black fornisce un resoconto fedele, sottolineando sempre come fra vagabondi e ladri esista un rigido codice d’onore: bollati dunque come psicopatici i ladri che usano violenza o che non rispettano i deboli, e invece ampiamente lodati i «gentiluomini», che rinunciano all’impresa se implica spargimento di sangue. Questo tuttavia non impedisce a Black e ai suoi compari di rubare le paghe dei minatori di un’intera miniera e di mostrare una certa sufficienza nei riguardi del lavoro salariato.
Affresco vivacissimo dell’America a cavallo fra Otto e Novecento, Non c’è scampo, pur mettendo sempre in primo piano le imprese dell’autore e della sua banda, descrive vividamente la trasformazione dal selvaggio West di pistoleri, minatori, giocatori d’azzardo e saloon in una società urbana novecentesca, così come evoca con grande efficacia il mondo sotterraneo degli immigrati cinesi, o l’ambiente, solo all’apparenza più elevato, degli avvocati e dei giudici, tanto facilmente corruttibili.
Il libro ebbe una influenza enorme sui pellegrinaggi dei Beat e sulla loro attrazione per i bassifondi del crimine, alla ricerca di un’identità alternativa al mondo borghese da cui la maggior parte di loro proveniva. Lo fa rilevare nel dettaglio il saggista britannico James Campbell in più punti della sua esauriente biografia collettiva Questa è la beat generation del 1999 (pubblicata in Italia da Guanda nel 2001): «Il tono del mondo “beat”, come Burroughs lo sentì sulle prime, era in armonia col mondo di Jack Black, il ladro vagabondo il cui memoriale di furtarelli e diserzioni, You Can’t Win, aveva incoraggiato il giovane e lupesco Burroughs nella sua ricerca di un sostituto dell’imperturbabile raffinatezza della sua famiglia a St. Louis. La società di topi d’appartamento, ladri di gioielli, viaggiatori, drogati, scassinatori di casseforti, tenutarie di bordello, eccetera suggeriva un’alternativa rosea a un focolare».
Fu proprio il ricordo delle imprese di Black a spingere Burroughs nelle zone malfamate del Lower East Side di New York, dove nel 1945 inizierà a frequentare un gruppo di tossicomani, ladri e prostitute, imparando i rudimenti della droga e del crimine. Di lì, il passo era breve per abbracciare la vita da fuorilegge, rinnegando la famiglia benestante. Questo libro così a lungo dimenticato, insomma, è alle radici di un movimento letterario che ancora adesso esercita la sua influenza sul nostro immaginario collettivo.