Corriere della Sera, giovedi 08 febbraio 2001
Sul saggio di Campbell Beat Generation dal mito alla storia di FERNANDA PIVANO
Nel mare di libri che sta uscendo su questo argomento in tutti i Paesi del Mondo Questa è la Beat Generation di James Campbell (Guanda), uscito a Londra due anni fa è uno dei più attenti e strani nel raccontare la leggenda dei quattro ragazzi (Kerouac, Ginsberg, Burroughs, Corso) che hanno sconvolto il mondo e hanno affrontato incomprensioni, malevolenza e diffamazione degli adulti e idolatria, venerazione e fiducia dei giovanissimi in cerca di un bandolo per impegnare la loro vita. Uscivano da una guerra e dalla bomba atomica, mentre l’ America si avviava verso la sconfitta nel Viet-Nam, che significava la sconfitta della leggenda americana, la fine del mito dell’ invicibilità. Vivere accanto a loro, cioè, conoscerli e capirli, è stato molto emozionante: le loro azioni clamorose erano sempre azioni dimostrative per l’ affermazione della libertà a tutti i livelli, in una sfida che voleva rivalutare la spontaneità della politica, della religione e, sopra ogni cosa, della poesia e della prosa. Questo splendido libro di Campbell si muove fra questi problemi con precisione severissima e con l’umiltà della grande critica, ma anche con gran coraggio, perché questa storia è ormai così famosa e malferma che affrontarla è quasi un’azione da kamikaze. James Campbell l’ha affrontata rinunciando ai giudizi, aggrappandosi alle date, ai documenti, alle testimonianze nel tentativo di comprendere che cosa passava per la testa di questi ragazzi che sfidavano il mondo. Campbell ha scritto il suo libro dividendolo in undici capitoli, ogni capitolo seguito da una piccola interpretazione storica. In una di queste viene offerta per la prima volta una spiegazione di termini derivati dalla lingua Wolof, che si parla ancora in varie zone dell’ Africa Occidentale e che era parlata dagli africani dei primi carichi sbarcati sulle coste della Virginia all’ inizio del Seicento, soprattutto da alcuni che venivano considerati Hipikat dagli altri schiavi: uno Hipikat era uno che sapeva le cose e i suoi discendenti sono gli Hip Cat Hipster. Alla lingua Wolof apparteneva anche la parola Bugal, scocciare, rimasta intatta finchè circa 500 anni dopo qualcuno disse: «Don’ t Bug Me» (non mi scocciare). Nella stessa lingua Wolof «deg» significa capire, e da questo Deg è derivato «You dig?» (Capisci?). Lo splendido capitolo del libro spiega anche parole del gergo Jive, cioè del gergo dei jazzisti che risalg ono alle lingue mande e bantù; altre parole potrebbero essere frutto di incroci con i modi di dire degli abitanti del Sud di origine britannica. Per esempio le origini del Blues sono radicate nelle ballate scozzesi e irlandesi tanto quanto nel ritmo africano; e l’ uso di «man» come intercalare è ancora diffuso fra gli abitanti degli altopiani scozzesi. Negli anni Trenta, dice un capitolo del libro, quando i gruppi Swing hanno cominciato a essere famosi e il jazz a circolare tramite radio e disch i, il gergo Jive uscì dall’ ambiente nero. Il primo libro scritto da un bianco che conosceva la lingua dei neri è uscito nel 1946 ed era intitolato I primi del Jazz ed era di Mezz Mezzrow. Mezzrow era un clarinettista ebreo e passava giorni e giorni ad Harlem, dove si presentava come spacciatore e come musicista e anche come consumatore di bastoncini di liquirizia. Nel dorsario di Mezzrow allegato a I primi del Jazz era elencata per la prima volta una parola nuova, del dopoguerra: «Beat: sfinito, al verde». Forse questo capitolo è tra i più rivelativi delle intenzioni rassicuranti dell’ autore, ma tutti sono svolti con la stessa precisione nel raccontare notizie che non sono pettegolezzi da bassa portineria come quelli così comuni nel mare di libri usciti negli ultimi anni. Con questa precisione a volte quasi ossessiva, l’autore descrive i vestiti e le scarpe che questi «ragazzi» indossavano mentre cominciavano i primi viaggi: e così li fa comparire in una specie di esaltazione liberatoria che ha condotto alla loro emarginazione dall’ establishment, cioè dalla classe dirigente. La stessa precisione nel narrare la regressione della moglie di Burroughs, Joan Voullmer, che attorno al 1950 s’era trasferita dai campi intorno a New Orleans, coltivati a marijuana, a Città di Messico e da lì scrisse a Ginsberg lamentandosi di non riuscire a trovare inalatori di benzedrina, di soffrire di gravi sintomi di astinenza, di come le fossero d’aiuto le pillole per la tiroide… La sua bellezza era scomparsa e, insieme, la sua lucidità. La dipendenza estenuante dalla benzedrina aveva sopraffatto il suo lato «dolce e balsamico» che era tanto piaciuto a Burroughs, l’anfetamina le causava problemi di circolazione e così, già a venticinque anni, zoppicava e talora doveva aiutarsi con un bastone. Con la stessa meticolosità, il libro racconta la storia di Neal Cassady, eroe ideale di tutta la vicenda beat, e le sue abitudini sessuali («Le donne di Neal lo ricordano come un pistone durante l’atto sessuale. A volte si sbatteva tre o più donne al giorno, a volte le intervallava con un uomo»), con la stessa meticolosità racconta il rapporto tra Neal Cassady e Ginsberg e – assai più importante – l’arresto di Ginsberg e il suo internamento all’ istituto psichiatrico della Columbia University, dove ha vissuto otto mesi per evitare la prigione, o la stupenda cronaca delle tre versioni di Sulla strada, quella descritta in tre settimane, quella riveduta un anno dopo, quella pubblica ta e la cronaca particolareggiata della tragedia di Burroughs, involontario assassino della moglie con una ventina di testimonianze contrastanti. La cronaca di questi anni, trattati finora con superficialità ispirata al sensazionalismo, colmerà la curiosità di quelli che hanno creduto nell’azione liberatoria di ragazzi disposti a pagare un durissimo prezzo per le loro idee, descritte ora nella loro drammatica ambiguità tra sogno e realtà.
Mentre viene battuto all’asta il «rotolo» dattiloscritto originale di «On the road», un saggio di James Campbell rivisita con scrupolosa precisione un mito moderno
[[Ancora sulla strada, echi della Beat Generation Kerouac e il suo «romanzo bop» emblemi di un’epopea artistica e ribelle mai dimenticata]]
Dopodomani, martedi 22 maggio, a New York, da Christie’s, verrà battuto all’asta il dattiloscritto originale di «On the road» di Jack Kerouac, romanzo-feticcio della Beat Generation. Potrebbe essere quotato quasi 3 miliardi di lire quel mitico «rotolo unico» lungo circa una quarantina di metri, sul quale fu scritto, ovviamente di getto, anzi – per dirla con quello che da bambino i genitori chiamavano affettuosamente nel loro dialetto francofono joual, Ti-Jean, contrazione di petit-Jean – scritta a ritmo di bop: istintivo, in una struttura narrativa che voleva essere eco del fraseggio jazz di Charlie Parker e Dizzy Gillespie. «Se Jack fosse vivo – ha commentato Lawrence Ferlinghetti, ultimo grande testimone dell’epopea beat dopo la morte di Gregory Corso nel gennaio di quest’anno – gli verrebbe un colpo. La vendita del rotolo rappresenta la sintesi del consumismo: qualcosa contro cui gli scrittori beat si erano ribellati». Sì, perché il «rotolo» è un po’ la reliquia laica di quella… cosa che cominciò nella primavera del 1944, quando Kerouac, Allen Ginsberg e William Borroughs si ritrovarono in un appartamento in affitto sulla 118.ma Strada di New York. Fu quello il seme di una pianta che diede frutti forti ma anche amari, innalzando rami verso orizzonti inebrianti di libertà e pacifismo e, al contempo, minando le sue radici col peso degli eccessi, della droga, della promiscuità, sorta di eco alla visione dell’Urlo ginsberghiano sulle «migliori menti» di una generazione «distrutte dalla pazzia». Liberazione ideologica e artistica, e intrappolamento sul piano etico (almeno rispetto al comune senso della normalità): una dicotomia che una saggistica copiosa ma non sempre realista ha nei decenni affabulato più che raccontato obiettivamente. In controtendenza va segnalato il recente saggio dello scozzese James Campbell, edito in Italia da Guanda, forte già di un titolo-manifesto secco e gnecco tutto concretezza che sarebbe piaciuto a Kerouac, teorico e praticante del linguaggio asciutto: «Questa è la Beat Generation». Ne ha scritto encomiastica un’autorità qual è Fernanda Pivano in un elzeviro sul Corriere della Sera, intitolato «Beat Generation dal mito alla storia» proprio a sottolineare che Campbell ha saputo raccontare «con precisione severissima e con l’umiltà della grande critica», ma anche «con gran coraggio, perché – ha sottolineato la Pivano – questa storia è ormai così famosa e malferma che affrontarla è quasi un’azione da kamikaze». E siccome in tema di letteratura americana, una dritta della Pivano va raccolta, mi sono goduto anch’io l’ostinata accuratezza che Campbell sciorina passo passo accompagnandoci nei fatti e aiutandoci a capire – cito ancora la Pivano – «che cosa passava per la testa di quei ragazzi che sfidavano il mondo». E se anche quella che ci offre questo bel libro non fosse la verità assoluta su un fenomeno artistico, letterario e ribellistico complesso e contraddittorio, ci consola il Kerouac-pensiero: «Non c’è verità, solo gradi di luce». Le regole dell’espressione artistica che – racconta Campbell – codificava Lucien Carr, lo studente che fece incontrare nel ’44 Kerouac, Ginsberg e Borroughs, del resto erano chiare: l’espressione di sè priva di veli è il seme della creatività; la coscienza dell’artista viene espansa dallo squilibrio dei sensi; l’arte si sottrae alla morale comune. Comprensibile, dunque, che, qualche anno dopo, Kerouac scrivesse «ho voglia di scrivere un romanzo gigantesco su ‘tutto’» all’amico ispiratore Neal Cassady che Campbell definisce come «l’incarnazione di un manifesto artistico per Jack». Fu a Cassady che, dopo il fallimento commerciale de «The town and the city», Kerouac giurò che «avrebbe rinunciato alla narrativa» e avrebbe reso le storie «meno letterarie», concentrandosi ad esprimere «l’autentica verità della mia vita» come oggetto, sostanza e forma della narrazione. Detto, fatto: fra il 2 e il 22 aprile 1951 Kerouac avviò quella che nel saggio è definita «una maratona di battitura» il cui esito furono «125 mila parole battute a macchina su un unico rotolo di carta» di quello che si sarebbe dovuto intitolare «On the road», poi «The Beat Generation», poi ancora «Strada ovunque» e infine di nuovo, definitivamente, «On the road». «La trama – scrisse Kerouac a Cassady – ha a che fare con te e me e la strada. Sono andato veloce perché la strada è veloce». Era, finalmente, quel non-romanzo che la New York Times Book Review, contrariamente all’entusiastica recensione che Kerouac lesse sul New York Times svegliandosi la mattina del 5 settembre 1957 e scoprendo d’essere diventato famoso, bocciò perché «senza trama», ironizzando su «una strada che non porta da nessuna parte». Un’obiezione la cui risposta era già nella scelta di Kerouac di scrivere «un romanzo bop» la cui essenza era l’improvvisazione, che non aveva bisogno di una storia perché il viaggio «era» la storia. Un vagabondaggio prima materiale e poi letterario davvero beat, aspettando che – per citare il libro – «in qualche punto lungo il tragitto sapevo che ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto; in qualche punto lungo il tragitto mi sarebbe stata donata la perla». Non una vicenda, dunque, bensì un vissuto: scritto com’era stato provato, senza fronzoli, con parole che scorrevano col ritmo jazzato del be-bop. Dopo «On the road» la parola «beat» – di cui Campbell, in una delle chicche del suo saggio, rintraccia la nascita – avrebbe perso l’accezione perdente. Il saggista racconta del libro «I primi del jazz» scritto dal clarinettista bianco Mezz Mezzrow, conoscitore del gergo jive dei jazzisti neri; vi era citata per la prima volta una parola gergale nuova: beat, nel senso di sfinito, al verde. Ma «beat» non rimase per sempre «battuto»: verso la metà del ‘59, una volta famoso, pubblicando su Playboy una versione del discorso tenuto agli studenti del Brandeis College l’anno precedente sulle «Origini della Beat Generation», Kerouac spiegava che sì, beat in origine significava «giù», «sfortunato», ma che in una chiesa a Lowell, aveva avuto un’illuminazione su «ciò che volevo dire davvero con beat: cioè beato». Un’esagerazione poco… kerouachiana, se vogliamo, ma tipica di uno che mischiò veramente la sua vita con la sua letteratura. E forse anche l’enfasi del sogno di un riscatto vissuto attraverso le sue creature letterarie, Dean Moriarty e Sal Paradise, e il loro girovagare lungo la Route 66 e dintorni, che sarebbero entrati nella storia della letteratura mentre la Beat Generation si faceva mito.
Francesco Fredi, Il giornale di Brescia, 20 maggio 2001