RECENSIONE di Irene Bignardi
Quando è cominciato il culto di Bogart? Forse quando è uscito quell’insuperabile capolavoro che è Casablanca? O quando è diventato Marlowe in quel confuso capolavoro che è Il grande sonno? O quando si è coperto di una barbaccia incolta in Il tesoro della Sierra Madre, rinunciando ad esporre in toto il suo celebre volto? O quando è diventato il rigido ma innamorabile Linus che cede allo charme adolescenziale di Audrey Hepburn in Sabrina? No. Ufficialmente il culto di Bogart – non l’ammirazione per il grande attore dalla faccia di pietra e dalla risata agghiacciante, non quello per l’uomo tosto e simpatico, non quello per la metà di una coppia amatissima del cinema, ma il culto per quella che si chiama ora l’«icona» Bogart – il culto di Bogart è iniziato un giorno sullo schermo in bianco e nero di un regista eversivo come Jean-Luc Godard, che ha messo il suo giovanissimo Belmondo di fronte a uno specchio, all’inizio di A bout de souffle, e gli ha fatto dire: «Bogey». Bogey era morto da due anni, nel 1957, e il suo personaggio di uomo duro, onesto, incapace di compromessi, sincero, leale senza sentimentalismi, divenne per una generazione in cerca di eroi un mito. Sono fioccate le biografie. Sono fioccate le celebrazioni. La ripresa di Casablanca e le analisi di chi, come Umberto Eco, ha esaminato quel film decidendo che non era «un film» ma «il film», ha inciso nella memoria collettiva una leggenda. E ora, a ripercorrere la storia di una star amatissima, arriva Jonathan Coe, scrittore di successo (il libro più celebre, La famiglia Winshaw, Feltrinelli, pp. 480, euro 8,5, ha avuto un notevole esito). Coe è un cinefilo sfegatato, che dei suoi Otto libri due ne ha dedicati ad altrettante leggende dello schermo, a James Stewart e, appunto, a Bogart, col titolo Caro Bogart una biografia (traduzione di Anna Mioni, Feltrinelli, pp. 136, euro 8,5, una prima edizione del libro era uscita 10 anni fa da Gremese). Premette l’autore: «Se le controversie sulle sue qualità umane tenderanno ad affievolirsi nel corso della storia, vero è che nessuno esce da uno dei grandi film di Bogart senza aver visto qualcosa che lo riempia e lo arricchisca. Se la sua carriera e i suoi film offrono buone ragioni per fame un culto è perché ci insegnano una strategia salutare, per stare dentro la vita quando va alla grande e quando è uno schifo. Per prenderla com’è». Sarà: si può chiamarla strategia, si può chiamarla nevrosi, debolezza umana, o quel che volete. In effetti Bogart esce da queste pagine umano troppo umano, come d’altronde lo abbiamo sempre conosciuto, pronto a innamorarsi, sposarsi, divorziare, risposarsi in una catena di peccato e di legalità quasi comica, se non ci fossero state lacrime, dolore, coltellate (si racconta che la terza moglie gliene abbia inferta una, fortunatamente non fatale, giusto prima che andasse sul set). Questa catena si è saldata in un eterno amore quando nel 1943 il duro Bogart si ritrovò sul set di Acque del Sud, il film di Hawks che avrebbe dovuto ripetere (e non ripeté) l’irripetibile magia di Casablanca, con una ragazzina 19nne sì ma tosta, tale Betty Joan Perske, di New York, ex modella di Harper’s Bazar. Betty divenne Lauren Bacall. E l’amore della vita, fino alla morte (anche se Hawks chioserà: «Bogart si è innamorato del personaggio che lei recitava, quindi le toccò recitarlo vita natural durante»: ed era il personaggio di una dura). La precedente consorte abbozzò – placata anche da un grande magazzino Safeway come buonuscita – e si creò attorno alla coppia Bogart-Bacall una leggenda di amore coniugale, impegno civile, battaglie comuni. Su cui Coe fa un po’ le pulci… Ma procediamo con ordine. La prima sorpresa è sapere che Bogey Il duro non viene affatto, tanto per dire, come Martin Scorsese, da un milieu altrettanto duro, ma da una tranquilla famiglia borghese, che giocava a tennis con gli amici, che era, insomma, uno «regolare», costretto dalla mamma ai più noiosi rituali sociali. Sarà stata la guerra a cui partecipò (si parla ovviamente di quella detta Grande e lontana in cui l’America entrò nel 1917)? Quando Bogey tornò, aveva 19 anni e decise che la sua vita era la recitazione: Broadway, dove accettò di fare le parti più umili, poi Hollywood, dove il successo arrivò subito, con La foresta pietrificata. Era un grande attore? Gli bastava portare in giro la sua faccia, la sua aria scontenta, la sua eterna sigaretta penduta (ricordate, in una celebre canzone degli anni 70, Don’t Bogart that joint, my friend, pass it over to me, non fumarti quella canna come Bogart, amico, passala a me?), il bavero rialzato, l’impermeabile, a cui lui rese lo stesso servizio che Clark Gable aveva reso alla canottiera e Brando alla T-shirt: nobilitarlo e renderlo sexy. Poi il successo continuo e con la maiuscola: Bogart è stato l’unico attore di Hollywood, secondo Coe, a potersi permettere un contratto che gli consentiva di fare un solo film l’anno con la Warner e uno con chi voleva, che gli permetteva di rifiutare un film su tre. Ci sono, nel libro di Coe, ovviamente, tutti gli aneddoti che ci si può attendere sulla avventurosa e casuale lavorazione di Casablanca, quando la Bergman non sapeva chi doveva baciare con maggior calore, se Bogart o Paul Henreid, perché non era stabilito a chi Michael Curtiz, nell’erratico sviluppo del copione, l’avrebbe alla fine destinata. C’è la storia «sociale» del cinema di gangster di cui Bogey è stato, con Robinson, Raft, Cagney, uno dei volti più popolari. Ci sono le frasi celebri («Non vi è occupazione così simile alla schiavitù come il cinema») e le storie sulle sue leggendarie ubriachezze (durante il Grande sonno totalizzò 34 giorni di ritardo su 42 di lavorazione). Ma c’è, più sorprendente, la cronaca delle sue paure e dei suoi ripensamenti durante la caccia alle streghe maccartista. Non era un eroe puro e duro, Bogey. Fu uno dei primi a cedere, discolpandosi dalle sue posizioni «democratiche»: «Aborro il comunismo come tutti gli americani degni ditale nome», dichiarò a Newsweek. E dire che Hedda Hopper lo aveva indicato come «uno dei quattro uomini più pericolosi d’America». Non lo era: se la sua immagine è rimasta quella amatissima che conosciamo è perché aveva vicino una grande donna, che lo mantenne nel solco delle convinzioni democratiche e protesse la sua leggenda, fino alla sua morte, nel 1957, fino alla rinascita del suo mito, fino ad oggi. Da Il Venerdì di Repubblica, 9 aprile 2004
“Bogart è sempre bravo a interpretare Bogart” (Raymond Chandler)
pubblicato il 16-05-2004 a cura di Tiziana Lo Porto su Pickwick
Quello che si sa del come Humphrey Bogart iniziò a far l’attore è che fu preso a lavorare da un vicino di casa, William A. Brady, produttore e gestore del Playhouse Theatre. Pur non vedendo grandi potenzialità in Bogart, Brady gli fece provare a fare quasi tutto, inclusa la regia delle ultime scene del film Life. Racconta Bogart: “Feci proprio un buon lavoro. C’erano delle belle inquadrature di gente che camminava per strada, con me riflesso sulle vetrine che gesticolavo come un pazzo. C’era una scena di inseguimento in auto in cui una macchina finiva per inseguire se stessa. Così il signor Brady intervenne e girò lui il resto”. Esordio pressoché fallimentare che poco o niente spiega del come e dove Bogart imparò a recitare.
Questo il punto di partenza e filo conduttore di Jonathan Coe nello scrivere il suo Caro Bogart. Una biografia (Feltrinelli, traduzione di Anna Mioni, pp. 134, euro 8,50), divertente cronaca di una vita piena zeppa di film e matrimoni. Più di settanta i primi (senza contare corti, comparsate e partecipazioni) e quattro gli altri, felicemente chiusi dal quarto, ultimo e più celebre: quello con Lauren Bacall – e qui invitiamo il lettore a consultare le belle immagini inserite nel libro. Ma della vita di Bogie, Coe non si limita a farne una schietta cronaca, perché quello che viene fuori è un vero e proprio teorema. Analizzando la filmografia di Humphrey Bogart si riesce in effetti a dimostrare che per diventare un bravo attore a volte non servono maestri e forse non serve nemmeno saper recitare. Così, quantomeno, accadeva a quel tempo. Che Humphrey Bogart, da inizio a fine carriera, non abbia fatto altro che interpretare se stesso è un evidente dato di fatto. Come disse una volta Raymond Chandler: “Bogart è sempre bravo a interpretare Bogart”. Più che lavorare sulla costruzione di personaggi altri, quel che fece Bogart nel suo apprendistato da attore – e in questo è paragonabile solo a divinità del cinema del calibro di Greta Garbo o Marilyn Monroe – fu lavorare esclusivamente alla costruzione di un personaggio unico e universale. Humphrey Bogart, per l’appunto. Scrive giustamente Coe: “Aveva una gamma ridotta di manierismi vocali e corporei e si sentiva a suo agio solo interpretando un ruolo adatto agli aspetti del proprio carattere”.
Al primo giustificato e presto risolto enigma – dov’è che ha imparato a recitare? -, ne segue però un secondo: com’era Humphrey Bogart nella vita privata? E poi: che faceva tra un film e l’altro? Com’era con le mogli e poi con i figli? In breve: chi era Humphrey Bogart? La sfera d’indagine dovrebbe così spostarsi dentro casa Bogart, dimenticando per un attimo Casablanca, La Regina d’Africa e tutto il resto. Ma in Caro Bogart questo non accade, né potrebbe accadere in ogni altra biografia di Humphrey Bogart. Perché, scrive Coe, “i film e la vita reale erano legati a doppio filo”. E non è un caso che la terza moglie, Mayo, durante le riprese di Casablanca fosse gelosa di Ingrid Bergman quando era più che evidente che i due divi non fossero in buoni rapporti. Così come non è un caso che l’unica persona con cui riuscì a costruire un rapporto stabile fosse una sorta di suo alter ego. O, peggio ancora, una donna costruita a sua immagine e somiglianza. E’ così che nasce infatti Lauren Bacall (vero nome Betty Joan Perske), scovata da Slim, la moglie del regista Howard Hawks, in quanto potenziale “omologo femminile del personaggio Bogart”. L’amore tra i due fu duraturo e inevitabile, e sarà lo stesso Hawks, a distanza di anni, ad emettere il curioso verdetto: “La cosa buffa è che Bogart si era innamorato del personaggio che lei recitava, quindi le toccò recitarlo vita natural durante”.
Recensione di Alessandro Genovesi 17/05/2004 su sunrisecinema
Jonathan Coe è uno scrittore di buoni romanzi, romanzi di struttura narrativa che poco hanno a che vedere col cinema, infatti ancora nessuno ha attinto dai suoi libri per realizzare un film, ma in cui traspare la sua passione per la settima arte. Pensiamo ad esempio al personaggio Terry di La casa del sonno alla ricerca del film perduto di Salvatore Ortese, ma anche al Michael Owen di La famiglia Winshaw che rimane chiuso in casa a vedere videocassette senza mai uscire.
È il cinema come amore, non certo come approfondimento critico, è cinema come ricostruzione di una passione. Ed è in quest’ottica che Coe si è occupato dello star system Hollywodiano e in particolare di due attori come James Stewart e Humphrey Bogart, di cui aveva pubblicato le biografie negli anni 90. Feltrinelli, editore storico di Coe, ha deciso ora di ripescare uno dei due volumi biografici e di pubblicarlo, scegliendo evidentemente il più “riconoscibile” dei due e cioè il mitico Bogie, al secolo Humphrey Bogart.
Caro Bogart, una biografia ripercorre la carriera e soprattutto il mito di questo attore, ormai ricordato più come icona da t-shirt o da poster che per i suoi film, ma vera e proprio star del cinema americano, e non solo, degli anni 50. L’interesse di Coe va evidentemente in questa direzione, e cioè indagare sul fascino di quest’attore, tutto sommato mediocre, incapace di leggere un intero copione, ma abilissimo a imparare le poche battute necessarie per girare una scena in pochi minuti. E’ attenta, nella sua pur breve analisi del personaggio, la lettura di Coe, dettagliata e appassionata rilegge il ruolo di duro da schermo di Bogie, del suo modo di recitare, della sua capacità di ritagliarsi un’immagine da sex symbol maschile, lui che di certo non era un bello tout court.
In poche pagine (129) e in appena 6 capitoli, Coe attraversa velocemente gli esordi difficili, la strada sbarrata da altri grandi del cinema nel periodo dei gangster movie, fino al consolidamento di una carriera supportata da contratti senza precedenti della Warner che lasciavano a Bogart enorme libertà, e, caso più unico che raro, persino la possibilità di rifiutare alcuni tipi di copioni. Coe viaggia tra passione cinematografica, che non diventa mai critica analitica, e passione per il personaggio che non diventa mai beatificazione o semplice osanna; raccontando i quattro matrimoni, i rapporti difficili coi colleghi, i litigi con Huston, i non proprio felici trascorsi nel periodo del maccartismo, il libro ci presenta un Bogart tutto sommato non molto diverso da quello che potevamo immaginare dai suoi film, duro e “cattivo” ma anche uomo dal cuore tenero, capace di picchiare, ubriaco le sue donne, ma allo stesso tempo innamorato premuroso e attento. Alla fine, infatti, la figura di Bogart in famiglia non interessa molto Coe, che, fatta eccezione per la mitica storia d’amore con Lauren Bacall, che a sua volta si ridimensiona nei suoi percorsi ordinari di famiglia, concentra la sua attenzione sull’icona cinematografica di Bogart. Manca però al volume, in questo senso, lo spessore di un racconto più armonico, cioè a dire meno frammentato e più d’insieme, Coe infatti rifugge, giustamente, dal trarre conclusioni, ma il risultato è quello di oscillare, quasi di perdersi, viaggiando fianco a fianco alla figura mitica del suo eroe, dando l’impressione di non volercelo raccontare fin in fondo. Rimangono quindi gli episodi, gli aneddoti dei film più noti di Bogie da Casablanca a Il grande sonno, da Acque del Sud a Il tesoro della Sierra Madre, da Sabrina a La Regina d’Africa.
La storia che Coe racconta descrive quindi meglio i film da lui interpretati che il personaggio, riuscendo a trovare i toni da romanziere di livello quale è quando ripercorre i film più memorabili e gli incontri più proficui per Bogart e per il cinema, vale a dire quelli con Huston, che amava, con il Ray degli esordi, con Wilder, che non sopportava, con Curtiz e Walsh, che rispettava. Più che una biografia, come pomposamente il titolo italiano tiene a sottolineare, il libro di Coe è l’indagine su una figura dell’immaginario, partita, forse, con velleità analitiche, e finita per diventare succube dell’immagine stessa. Un po’ come il Bogart del Grande sonno, Coe s’ è lasciato invischiare nella storia, perdendo in lucidità ma dando una grande prova di passione cinematografica.
Biografia di un mito Scritto da Marcella Musacchia Noteamargine
venerdì 21 maggio 2004
La vita e la carriera di una leggenda del cinema
«Humphrey Bogart – scrive Coe nell’introduzione di questa sua breve biografia dedicata all’attore e appena edita da Feltrinelli– è storia antica» e in parte anche dimenticata, visto il rarefarsi delle pubblicazioni incentrate sulla sua figura e la sostanziale non conoscenza del pubblico cinematografico più giovane. E forse anche la pubblicazione di questo libro la dobbiamo, più che ad un vero interesse nei confronti dell’argomento-Bogart, al buon riscontro di vendite che gli altri libri dello scrittore inglese hanno avuto in Italia. La biografia di Coe (la seconda da lui dedicata ad un attore), uscita in Inghilterra nel 1991 con il titolo Humphrey Bogart take it & like it, e ora edita in Italia dalla Feltrinelli, ripercorre la carriera di ‘Bogie’ dai faticosi e malcerti esordi nel mondo del teatro di provincia fino alla notorietà internazionale.
In meno di 130 pagine Coe riesce a creare con leggerezza un racconto appassionante che ha per tema un uomo, un attore, una star, un’epoca e un mondo, restituendone un ritratto di sorprendente completezza. Continuamente, dalle pagine del libro, traspaiono l’affetto di Coe per questo mito della vecchia Hollywood e il suo pudore nell’affrontare il racconto dei capitoli della sua vita privata – peraltro ineludibile per conoscere e comprendere Bogart – senza mai indulgere al pettegolezzo gratuito. Una vita privata a lunghi tratti infelice che appare quasi come il logico pendant di una celebrità sofferta e in parte insoddisfatta a causa della “prigionia” dei ruoli impostigli dalle Major. Eppure proprio questi personaggi da“uomo che ha visto troppo” sono quelli che hanno consacrato Bogart come mito, facendo si che nell’immaginario popolare quel personaggio fosse Bogart. Dal Mistero del falco – primo, straordinario film di John Houston – all’ultima apparizione ne Il colosso d’argilla, passando per Il grande sonno, L’ultima minaccia e, naturalmente, per lo straordinario successo di Casablanca, il personaggio del cinico sentimentale dalla battuta pronta si sovrappose al volto di Bogart. La leva degli attori, allievi di Lee Strasberg all’Actor’s Studio, che presto si sarebbe imposta con un nuovo modo di recitare, un modo che non piaceva a Bogart «Questa scuola di recitazione alla ‘mi gratto il culo e mi mangio le parole’» avrebbe in qualche modo determinato la fine della “età dell’oro” di Hollywood.
Dispiace costatare che le 160 foto che corredavano l’edizione americana del libro sono qui ridotte ad una ventina di immagini, peraltro molto conosciute. Un’omissione che certamente fa di quella italiana un’edizione assai più povera di quella originale.
Jonathan Coe, Caro Bogart. Una biografia
di Giovanni Petitti
su Frameonline
Prima dei suoi romanzi più noti e premiati: La famiglia Winshaw (1995) e La casa del sonno (1998), Jonathan Coe (Birmingham 1961) ha scritto due biografie di attori cinematografici: James Stewart e Humphrey Bogart. Humphrey Bogart, Take It & Like It venne pubblicata in Gran Bretagna nel 1991 ed esce ora per le edizioni Feltrinelli tradotta da Anna Mioni. Chi abbia letto qualche pagina del Coe narratore non rimarrà certo stupito del suo interesse per la settima arte, visto che in molti suoi testi non mancano riferimenti cinematografici, a partire dal titolo originale della Famiglia Winshaw: What a Carve Up!, tratto dal titolo, identico, di un film horror parodico del 1961. Vinta quindi una nostra certa ritrosia nella lettura delle biografie cinematografiche, più spesso esercitazioni per giornalisti del gossip che reali scandagli nell’universo degli artisti, abbiamo affrontato questo testo con ottime aspettative. Nei primi capitoli le nostre attese sono rimaste un po’ deluse, perché dopo una premessa piuttosto banale: il segreto del volto di Bogart è nel saper prendere la vita come viene, abbiamo incontrato pagine scritte con stile anodino. Né carne (critica): pochi dati sui suoi esordi, filmografia senza i nomi dei registi, né pesce (letteratura), niente biografia reinventata come in quel magnifico libro di Sciascia dedicato all’attore Ivan Mosjoukine. Insomma, sulla giovinezza privilegiata e un po’ scapestrata di Bogart ci dobbiamo accontentare di qualche dato, elencato senza troppa verve: la cacciata dal college, la guerra vissuta di striscio. Tra l’altro Coe non accenna alla parziale paralisi da ferita che connoterà il suo volto di cui parla Il dizionario universale del cinema di Di Giammatteo. Ci racconta gli esordi teatrali, da fattorino ad attore di seconda fila a Broadway. Una vita fatta di film fiasco, ormai dimenticati, ma anche di incontri come quello con Spencer Tracy, in Up the River di John Ford, commedia d’ambiente carcerario (1930). Fu proprio Spencer Tracy, con cui strinse una lunga amicizia, che coniò il soprannome Bogie. Bogart si ritaglia spesso ruoli da “belloccio sportivo” ma finisce presto in quel gorgo di alcolismo cui si affrancherà solo in parte durante il suo quarto matrimonio con la Bacall. Dopo aver interpretato, ne Il ritorno del dottor X, un vampiro con affascinanti occhialini tondi e ciocca bianca (avrà ispirato Coppola per Dracula-Oldman?), trova il vero successo con Una pallottola per Roy di Raul Walsh, scalzando fortunosamente la concorrenza per tal ruolo del rivale George Raft. Accanto ai film scorre la travagliata vita matrimoniale con Mayo, le loro violenze alcoliche finiscono spesso sui giornali americani e la sua fama non è delle migliori nell’ambiente. Tanto che Ida Lupino fa mettere nel contratto Warner la possibilità di evitarlo come partner. Ciò che traspare nella biografia di Coe è il ritmo da catena di montaggio imposto dalle Majors hollywoodiane: un film dietro l’altro, e Bogie non si tira quasi mai indietro. Un altro film che lo porta a incrementare la sua fama è l’esordio di John Houston, Il mistero del falco. La regia, la fedeltà alle atmosfere di Hammett, un cast eterogeneo e affiatato ne fanno un archetipo del genere noir. Per la carriera di Bogie, il film di svolta è Casablanca, non certo un capolavoro di regia e tanto meno un film di sceneggiatura, visto che vi misero le mani in tanti, ma una di quelle pellicole entrate nell’immaginario collettivo in tutto il globo. Un film che ne contiene tanti, come ha scritto Eco, citato da Coe, con tutti i luoghi comuni di Hollywood: divismo, romanticismo, avventura, guerra, idealismo. È interessante sapere che doveva inizialmente essere un film di serie B, e indirizzato a Ronald Reagan. Si girò a braccio, tanto che la Bergman non sapeva a chi dovesse fare gli occhi dolci tra i due personaggi maschili. In questa parte del libro la prosa di Coen si fa più avvincente e viene sostenuta da informazioni più dettagliate e intriganti. Del rapporto con Bogart, la Bergman dirà: “L’ho baciato, ma non l’ho mai conosciuto veramente”. Coe ci racconta come ella fosse spesso in sala a rivedere Bogart sullo schermo nelle vesti di Roy per cercare di penetrarne il mistero. Certo nella carriera di Bogart continuano a esserci anche ruoli poco plausibili, specie quando incarna eroi idealisti. Lo stesso Rick di Casablanca risulta un po’ inverosimile come ex volontario in difesa della repubblica spagnola. Però ora il divo può imporre alla Warner un contratto da duecentomila dollari l’anno con l’obbligo di un solo film e una lista di registi compilata da lui: John Huston, William Wyler, John Ford, Billy Wilder, Edward Dmytryk. Un elenco dove Coe sottolinea l’assenza di Hawks, cui Bogie deve Il grande sonno, uno dei suoi capolavori, film in cui avverrà l’incontro artistico e amoroso con la Bacall. Altre pagine interessanti sono quelle dedicate alla caccia alle streghe quando fu dapprima a fianco di Huston nel contestare il diritto della commissione di accusare registi e attori solo per le loro opinioni politiche, e successivamente abiurare pubblicamente tale battaglia. Nel 1948 Bogart fondò la Santana, casa di produzione indipendente con la quale girò I bassifondi di San Francisco di Nicholas Ray, dove interpretò un ruolo fuori dalle convenzioni dei generi. Un altro incontro importante fu quello con Katharine Hepburn ne La regina d’Africa, un set difficile e impervio, adatto più all’avventuriero Huston che non allo stile di vita di Bogart. Per questa interpretazione vinse l’unico suo Oscar. Vorremmo salutare l’icona del noir, cui Allen chiedeva consigli in Play it Again, Sam, ricordandolo sulla costiera amalfitana con la stramba crew del film Il tesoro d’Africa (1954) di Huston, con Truman Capote, spiritoso dialogista, e accanto a lui interpreti assortiti: Peter Lorre, Gina Lollobrigida, Jennifer Jones, Saro Urzì. La morte lo avrà nel 1957, a soli cinquantotto anni, vissuti con la sigaretta perennemente accesa e il whisky a portata di mano.
(29/06/2004)
‘Caro Bogart’: una biografia come un romanzo
di Silvia di Paola da Cinespettacolo.it
Un attore divenuto icona ed emblema di una certa stagione del cinema americano e uno scrittore poco più che quarantenne divenuto voce di una generazione inglese e londinese doc. Humphrey Bogart e Jonathan Coe.
Che cosa hanno in comune l’attore e il suo biografo? Praticamente nulla. Anche perché Coe il cinema lo ama, ma al cinema è arrivato scoprendo i vecchi film attraverso la tv e nel cinema non ha mai lavorato.
Ma, forse proprio per questo, è riuscito a scrivere una biografia come un romanzo. Soprattutto: come un romanzo su se stesso.
L’impassibile Humphrey, allora, in questo ‘Caro Bogart’ edito da Feltrinelli, diventa un uomo ‘in cui potersi identificare’ e cessa di essere il duro e maschio impresso nella memoria di molti, anche perché a forza di investigare sulla virilità non solo sua ma dell’uomo in crisi di oggi le crepe si mostrano e l’emotività trabocca.
L’emotività del fragile Bogart che da duro recitava e da duro si copriva anche nella vita quotidiana ma che, all’occorrenza sapeva mostrare ciò che era: un uomo che sapeva anche perdere.
E qui sta ogni insegnamento possibile, al maschio di oggi. Qui sta ciò che Coe voleva raccontare su quello che si vince quando si sa perdere.