Per chi ha avuto la possibilità di recarsi in questi anni in Marocco, susciterà interesse trovare nel libro di Edith Wharton un mondo così lontano da quello di oggi. L’autrice ha fatto il suo viaggio nel 1917 e ha voluto supplire con le sue note alla mancanza di una guida turistica.Il testo è articolato in capitoli dedicati a Rabat e Salé, Volubilis, Moulay Idriss e Meknès, Fès e Marrakech, ai quali seguono una parte dedicata agli harem e alla festa a palazzo reale dell’aïd-el-kebir, una presentazione dell’opera di Lyautey, residente-generale francese, e alcune note sulla storia e l’arte. Il viaggio anticipa in qualche modo i tradizionali tour delle città imperiali, ma il mondo che viene descritto è molto più misterioso, avventuroso, esotico; a partire dal paesaggio, che sembra composto quasi esclusivamente da antiche città con i nuovi quartieri coloniali e, subito al di fuori, dal deserto, solcato da piste percorribili con difficoltà e da poche recenti strade. L’occhio con cui la scrittrice osserva e descrive la realtà è molto condizionato dalle letture fatte e dai quadri visti, fonti da lei correttamente esplicitate, che la riportano a un clima e a un gusto orientalista. Le descrizioni indugiano sul colore, le forme, gli atteggiamenti, e sono spesso di grande suggestione. Si sprecano parole come avventura, mistero, pittoresco, indolente, fanatico, sporcizia, fatalista, tipico, sogno, bestiale, barbaro. Nel suo viaggio, accompagnata e protetta dagli ufficiali di Lyautey, quasi mai l’autrice parla con le persone del posto, perché nessuno di loro ne conosce la lingua. Solo nelle case di notabili può fare un minimo di conversazione attraverso il francese, sempre sotto il controllo dei parenti maschi delle famiglie.
La scrittrice è vissuta a lungo in Francia, e della Francia sposa totalmente la politica colonialista. Esalta l’azione politica ed economica di Lyautey, la capacità di coniugare autorità militare e rispetto per la cultura locale, e ne apprezza l’opera di conservazione e restauro dei beni culturali. È infatti piena di ammirazione per l’architettura e l’artigianato marocchini e si duole per l’abbandono in cui si trovano edifici mirabili conservatisi dal medioevo di cui non c’è esempio in altri paesi nordafricani. In questo libro può essere interessante anche notare le manifestazioni di una sensibilità ancora oggi frequente tra i viaggiatori occidentali: inorridisce di fronte alla sporcizia, si duole che il suk di Fès sia troppo poco orientale o che il bellissimo artigianato locale sia abbandonato per prodotti occidentali di poco valore artistico, nota la tenerezza dei genitori verso i figli o la ‘democratica familiarità’ tra potenti e miseri, ma la accosta subito al ‘servilismo più abbietto’ e sottolinea soprattutto il persistere della schiavitù e l’esistenza infelice delle donne degli harem.
(scheda di L. Cometti, L’Indice dei libri del mese 1998, n. 3)
Collane specialistiche in espansione, dunque. Franco Muzzio Editore, ad esempio, propone Aritroso, ideata da Ippolito Pizzetti, che ospita classici della letteratura di viaggio. Una rivelazione può essere (…) l’Edith Wharton che nel 1917 pubblica ‘In Marocco’, diario della scoperta di una femminilità ad anni-luce da quella newyorkese, in un universo ancora ammantato dell’esotismo dei quadri di Delacroix.
(Stefano Pistolini, L’Espresso del 16 luglio 1998)
Se intendete fuggire dal caos ritirandovi alle soglie del deserto (…) portate con voi questo libro della scrittrice americana. (…) Il suo resoconto rimane un’ottima guida. Traduzione di Anna Mioni
(Mario Fortunato, L’Espresso del 18 dicembre 1997)
In Marocco con Edith Wharton
Bibi David ( da Caffè Europa) Edith Wharton, In Marocco-Harem, moschee e cerimonie”, Editori Riuniti, pp.201 Euro14,50
Libertà, evasione e fuga: questo era il Marocco per Edith Wharton, la scrittrice americana de L’età dell’innocenza,quando nell’autunno del 1917, in piena guerra, lascio’ Parigi per avventurarsi in quell’allora inesplorato lembo di territorio africano. Come uscire dalla grettezza di una fosca quotidianità? La via migliore era, penso’ la Wharton, perdersi per un po’ in una terra lontana, nutrita d’incanto, dove non esistevano guide turistiche né cartine. Da quel penetrare nel mistero nacque un ricco diario di viaggio: In Marocco-Harem, moschee e cerimonie”(Editori Riuniti). Il deserto, con una luce che annienta i contorni delle cose, è morte e anelito al divino, squallore e sogno. La scrittrice racconta i miraggi di una sabbia rosata, ai margini dell’irrealtà, il chiasso delle piazze marocchine invase da cantastorie, venditori di acqua, incantatori di serpenti con caftani colorati, donne con i piedi neri dipinti di hennè; rievoca le tinte del mercato di Marrakech, con i banchi di petali di rosa e i sacchi di pepe, gli odori inconfondibili del tè con le foglie di menta di Salè, città dall’uva dorata e dai melograni rossi come la ruggine ma anche città dei pirati. La civiltà marocchina, cosi’ prossima all’Africa nera, ci dice la scrittrice, è la civiltà dalle eterne contraddizioni, stagnante e florida al contempo. Qui i personaggi de Le mille e una notte, califfi, principi e re, si confondono con i nomadi e i mendicanti, sotto i tetti di paglia marciti dei suk, dove i cani scheletrici si aggirano in cerca di immondizia, sotto i minareti imponenti di Rabat o nella malinconica Fes. In Marocco “nulla dura se non la mutevolezza”, in un presente pero’ che è un passato prolungato in eterno. La Wharton scrive: “tremi continuamente per paura che entri la persona di Porlock”, il visitatore che interruppe S. T. Coleridge mentre scriveva la poesia ‘Kubla Khan’, perché il confine fra veglia e illusione ha contorni tutt’altro che nitidi. Le tombe dei santoni, i koubba, affiancano i mercati di frutta candita, drappi, cipolle viola e frittelle dorate, le storie arabe di geni malvagi che prendono le sembianze di tempeste di sabbia assalendo le carovane di cammelli si mischiano a leggende religiose, i popoli che hanno sfiorato il Marocco, i berberi ribelli di Blad-el-Siba, gli uomini velati del sud, i tuareg, sono specchio di una architettura fatta di cupole gigantesche, moschee, madrase. Le cerimonie rituali come l’Aid-el-Kebir, il sacrificio della pecora, ricordano antiche usanze tribali, ma anche episodi dei testi biblici. Ogni cosa è pure il suo contrario. Solamente un’ombra ottenebra il soggiorno della Wharton:la vista degli harem, i palazzi dei nobili locali. Le donne marocchine sono rinchiuse da mesi, a volte da anni, in incantevoli prigioni fatte di arabeschi e fiori primaverili dipinti sui vasi, pallide sotto i veli e i diademi, immobili come statue, paralizzate in una apatia senza tempo, in una “sensualità priva di seduzione”. Molte di loro, prima di finire in quegli appartamenti, erano libere di camminare per le strade e assaporare i profumi delle città.Ora i loro sguardi non sono piu’ sofferenti né rassegnati per un destino beffardo, come forse erano all’inizio, perché l’oblio ha sconfitto la memoria. “Forse è meglio che nessuno proveniente dal mondo esterno venga a ricordare a queste creature indifferenti che da qualche parte i gabbiani danzano sull’Atlantico e il vento mormora fra i boschetti di palme”, commenta , alla fine, con amarezza la Wharton. E approfitta per dirci che dovunque la schiavitu’ sta nel rimanere bloccati, immobili, mentre l’evasione è quel guardare oltre, quel volare con la mente e con il corpo che si ha nel viaggiare e nello scrivere.