Cinque maestri di genere finiti in un coacervo di marpioni e giovani esponenti del Postmoderno esistenziale: così l’antologia di Michael Chabon (ora tradotta) mostra tutta la senescenza di un cliché, e di un Paese
di Enzo Di Mauro [da La Talpa, inserto de il manifesto]
Michael Chabon, quel giorno, avrebbe potuto alzare la cornetta del telefono per commissionare ad alcuni suoi colleghi – illustri, meno illustri o solo promettenti – un racconto che avesse come protagonista il cane. Per una semplice ma non banale ragione: i cani oggi vanno alla grande un po’ come i lupi nel Duecento, in letteratura e fuori di essa, ovvero sulla pagina e (ciò che ormai, occorre rassegnarsi, più conta) nella vita. Quella mattina, invece, e dopo averne debitamente discusso con Dave Eggers in quanto direttore della rivista «McSweeney’s» (la celebre fucina di talenti e di esercizi di stile), Chabon decide di chiamare un certo numero di maestri, confratelli e cuccioletti per investirli di un incarico di stampo (come dire?) più generalista e meno ambizioso, e insieme tuttavia più subdolo e colmo di pesanti insidie genealogiche e fattuali, almeno rispetto a quell’America «teorica» e astratta che non smette (fatte salve le non poche e grandi eccezioni) di frequentare l’ultima spiaggia della letteratura di genere, a cui si demanda ingenuamente la salvezza del romanzo e astutamente la tutela delle vendite.
Chabon mostra di saperlo quando riconduce il tema inesauribile dellavventura a una sorta, oggi e con efficace espressione, di «rugiada epifanica» – laddove qui si gioca per necessità al ribasso, ad esempio mediante il tentativo di ridare gloria alla trama come se la trama (l’intreccio) ne avesse bisogno e non trionfasse già dappertutto simile alla più vieta delle pratiche.L’ideatore e curatore del decimo numero di «McSweeney’s», apparso negli Stati Uniti nel 1992 e ora tradotto a tante mani in italiano col titolo La super raccolta di storie d’avventura (Mondadori «Strade blu», pp. 455, 16 euro), volume accompagnato dalle illustrazioni originali di Howard Chaykin, irride e anzi sbeffeggia i suoi ospiti quando, a proposito del racconto breve (di fantasmi, dell’orrore, di investigazione, di suspence, del terrore, di mare, di spie, di guerra e via dicendo, fantastici o macabri, storici o d’amore) ricorda una serie di nomi di autori di «raccontini di basso livello», da Poe a Balzac, da Edith Wharton a James, da Conrad a Robert Graves, da Maugham a Faulkner a Twain a Cheever (e avrebbe potuto aggiungere, a completare l’opera, anche Stevenson, Melville, Kipling e altri ancora). Per intanto, Chabon ha chiesto un contributo ciascuno a Elmore Leonard, a Stephen King, a Michael Moorcock, ad Harlan Ellison e a Michael Crichton, cinque maestri della narrativa di genere i quali senza farselo ripetere – e sarà un elemento che meriterebbe una piccola riflessione – mettono al tappeto i restanti diciassette abitanti della casa (compresi Chabon ed Eggers) con altrettanti racconti sia pure composti con la mano sinistra, tra un impegno e una dormita. Ma chi sono gli altri condomini, oltre ai sunnominati? Eccoli, in ordine di apparizione, senza dimenticare che alcuni di loro, assai noti anche in Italia, possono ormai vantare una vicenda non esigua e dunque, di conseguenza, una fisionomia ferma e precisa benché non del tutto lineare in quanto a risultati raggiunti: Jim Shepard, Glen David Gold, Dan Chaon, Kelly Link, Carol Emshwiller, Neil Gaiman, Nick Hornby, Laurie King, Chris Offutt, Aimee Bender, Sherman Alexie, Karen Joy Fowler e Rick Moody. Una squadra nell’insieme composita e ricca ai limiti dell’incomprensibile, tra anziani e scaltri artigiani della fantascienza, dell’horror, del western, del poliziesco e del noir, e giovani e meno giovani esponenti del postmoderno esistenziale. Ma occorre prendere questi thrilling tales – così nel titolo originale – per il verso più utile (che non è affatto quello del divertimento; anzi, ci si annoia spesso e volentieri) a trarne un discorso e un eventuale e provvisorio punto conclusivo. E dire, innanzitutto, che l’antologia va trattata alla stregua di una teoria di sintomi, di uno schedario di sensi di colpa, di una mappa di rimorsi storici e politici, di un tracciato di movimenti psichici. La nozione dell’avventura – se così vogliamo continuare a chiamarla – viene restituita al mittente polverizzata piuttosto che glorificata. Oppure ritorna come detrito, scarto, torsolo, conchiglia fossile, irripetibile qualità di tempo ibernato. Due esempi. Nel racconto di Jim Shepard («Tedford e il Megalodon») è un grande, spaventoso animale marino (è uno squalo, ma le sue fattezze anche simboliche attengono all’inveduto) a rappresentare l’angoscia dell’influenza più che l’omaggio all’antico maestro Melville («Dove avrebbe portato Tedford il suo animale, se fosse stato in grado di avere la meglio? Chi poteva capire l’importanza di una simile creatura? Chi poteva capire la perdita? La separazione? Il nudo terrore dell’inadeguatezza? Le mandibole dello squalo eruppero intorno alla prua e alla poppa di Tedford, mentre cortine di spruzzi si frantumavano facendolo capovolgere, girandolo in modo che potesse guardare la luna, lasciandogli il tempo per un bagliore di pensiero rivolto a Giona, e bloccandolo un istante prima di tutto quello in cui aveva sperato, e di più»). Il secondo esempio lo prendiamo dal racconto di Gren David Gold («Le lacrime di Squonk e quel che successe dopo»), nel quale un elefante (che fu l’attrazione principale di un circo di provincia) riaffiora dal terreno come una reliquia preistorica («A dieci iarde dalla fine dei binari, sotto i detriti di sei generazioni di tecnologie ferroviarie abbandonate, c’è uno scavo largo venti piedi e profondo altrettanti, ricavato dalla terra battuta quasi cento anni fa, e riempito di nuovo quasi immediatamente. Al centro, tra le radici e le erbacce, le pietruzze e le schegge di vetro e metallo, giacciono le ossa di elefante. Incrostate di sporcizia, neri di tessuti secchi, esse luccicano anche assieme a un collare fatto di catena in acciaio inox, e c’è un mantello probabilmente rosso, un tempo forse increspato e imperiale, e che adesso è decomposto e incolore quanto la polvere»): ossa appunto mischiate ai materiali della modernità, laddove un secolo finisce per diventare, per dilatazione impazzita, una perduta era geologica le cui tracce brillano simili a una leggenda di streghe e gatti, e di api che ronzano nella testa degli uomini trasformandola in un letamaio di memorie sepolte. Quel ronzio (nel racconto di Dan Chaon) ritaglia alle ombre urlanti il loro desiderio di sepoltura. Che poi significa che siamo noi, qui e ora, a urlare. Che è l’America a non stare bene, ad avere il mal di pancia e a farlo venire agli altri, magari triplicato. In questa antologia, gli scrittori vengono chiamati a rispondere intorno alla senescenza dei cliché, alla loro potenza devastata dall’uso. Il genere mostra – ormai sgonfiati e macilenti – i vecchi muscoli alla maniera di chi, troppo lungamente, ci dice addio. Sia detto per inciso e come ipotesi: a leggere i racconti in questione si capisce come l’America non sia più la stessa e tuttavia, al medesimo tempo, quanto essa si ostini a somigliarsi. Anche questi scrittori, a modo loro, credono di somigliare ai maestri dell’avventura, benché ne siano solo i calchi fossili o, se si preferisce, con un ossimoro, i preistorici pronipoti.
La rivincita dei manovali del libro
La super raccolta delle storie d’avventura»: il meglio del peggio della letteraturaIn cinquecento paginei classici della scrittura d’evasione. Storie con dark ladies, investigatori o vampiri che hanno gelato i critici e conquistato il pubblico
Michael Crichton e Neil Gaiman, Elmore Leonard e Stephen King, tutti in un grande volume
di DIEGO GABUTTI [Il Tempo, 18 luglio 2004]
CON «Pulp fiction», prima che il film di Quentin Tarantino facesse della parola «pulp» un marchio di garanzia apprezzato anche dai critici più snob, s’intendeva la narrativa dozzinale, a sensazione, popolare nell’America tra le due guerre. I «pulp» erano rivistacce stampate su carta da formaggio, piene di racconti dell’orrore, avventure di pirati, saghe interplanetarie, storie di poliziotti privati dai modi spicci e di gangster elegantissimi che, nelle tasche dello smoking, nascondevano pistole nichelate e portasigarette d’argento. C’erano dark lady e morti viventi, giustizieri in maschera da carnevale e vampiri pallidi come Pierrot, cacciatori di tigri e leoni, mutanti e avventurieri. Gli scrittori di «pulp» non andavano tanto per il sottile. Scrivevano storie rudi e sgangherate, guardate con legittimo sospetto dai benpensanti, che le rubricavano, insieme ai fumetti e alla pornografia, nell’inferno della letteratura.
Eppure furono proprio alcuni autori di «pulp» – da Dashiell Hammett a Philip K. Dick, da H. P. Lovecraft a Raymond Chandler – a cambiare tutte le carte in tavola. Scommisero sull’eloquenza dell’intrattenimento puro e costrinsero la letteratura moderna a confrontarsi con i suoi fantasmi: l’horror metafisico delle serate danzanti degli zombie e delle streghe, il duro realismo metropolitano dei polizieschi d’azione, il panico filosofico degli universi paralleli e dell’identità umana messa a rischio da ultracorpi, robot, androidi, cyborg e replicanti. Furono gli artigiani dei «pulp», scrittori pagati un tanto a riga, che avevano fatto cattivi studi e lavoravano per un pubblico minorenne e foruncoloso, a restituire alla letteratura il suo fascino originario: il brivido del romanzesco, la vertigine dell’evasione.
E la festa continua. Tanto che «McSweeney», un «magazine» letterario che negli Stati Uniti è un vero e proprio cult, ha celebrato la grande stagione dei pulp con un numero monografico, tradotto in Italia nella collana «Strade blu» di Mondadori, intitolato La super raccolta delle storie d’avventura (458 pagine, € 18,50). Scrittori come Michael Crichton e Neil Gaiman, come Elmore Leonard e Stephen King, come Harlan Hellison e Michael Moorcock partecipano al ricevimento di «McSweeney’s» con novelle ad altissima gradazione avventurosa che vantano un cast di mummie e squali giganti, d’elefanti e stregatti, di scienziati pazzi e bambole assassine. C’è persino il Settimo cavalleria del Generale Custer in versione zombie. Ma quello dei «pulp» non è un qualunque revival. Secondo Michael Chabon, che ha curato l’antologia, la grande stagione della letteratura pulp è ancora in piena fioritura e i suoi spropositi continuano ad essere d’antidoto contro il virus che minaccia la letteratura: l’assenza d’una trama.
Perché proprio quella della trama, dell’intreccio, dell’ampio e a volte fin troppo generoso disegno narrativo, è la bandiera sollevata dai «pulp», il cui Altissimo era l’avventura per l’avventura, l’autoanalisi e la bella pagina due demoni da esorcizzare. C’è in giro, secondo Chabon, ancora troppa narrativa malata di minimalismo da nobildonne frustrate, d’introspezione frou frou, d’intellettualismo forbito ma esangue. È tempo di tornare a sciacquare i panni nell’Arno della letteratura popolare. Urge tornare ai vecchi «pulp», alle storie alticce e svergognate, alle avventure dei «detective metatemporali» di Michael Moorcock oppure a quelle dei gelidi rapinatori di banche e dei giovani sceriffi d’Elmore Leonard, prima che la letteratura passi definitivamente al nemico: la seduta psicanalitica, il gruppo d’autocoscienza, lo sbadiglio elegante e salottiero.
COCKTAIL MOLTO ALCOLICO
Western, horror, noir: 20 autori si cimentano col racconto
di Roberto Barbolini, da Panorama
«Elmore Leonard è autore di numerosi libri, tra i quali Rum Punch e Cuba Libre. Vive nei dintorni di Detroit». Una presentazione così è sobria fino allo snobismo, ma anche ebbra fino all’etilismo, visto che d’una produzione diluviale vengono citati due soli titoli, entrambi ad alta gradazione alcolica.
La troviamo in un numero speciale della rivista McSweeney’s, appena tradotto nella collana Strade blu della Mondadori con il titolo La super raccolta di storie d’avventura. L’ha voluto e realizzato il quarantunenne Michael Chabon, premio Pulitzer 2001 per Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay (Rizzoli), contagiando con il suo entusiasmo il trentaquattrenne direttore della rivista Dave Eggers, titolare della casa editrice indipendente McSweeney’s Books nonché genio annunciato della nuova narrativa americana, del quale la Minimum fax pubblica in questi giorni, fuori commercio, la novella inedita Se non è vietato, è obbligatorio.
«Se ti lascio fare da curatore esterno di un numero di McSweeney’s, non è che potremmo magari darci un taglio a ‘sto discorso?» ha detto Eggers a Chabon che si dilungava sull’esigenza, per gli scrittori americani, di tornare alla misura breve del racconto. Ed ecco il risultato: da Michael Crichton a Nick Hornby, da Rick Moody a Stephen King, ai già citati, 20 narratori si cimentano nel western o nel fantasy, nell’horror o nel poliziesco, senza paura di sporcarsi le mani con distinzioni di genere o gerarchie di valore. Un cocktail dai sapori diseguali. Ma forti come un «rum punch» o un «cuba libre», direbbe Leonard.
Raccolta molto “cool” di Eggers & scherani
A leggere i loro nomi di fila uno dopo l’altro, stipati, elencati, parrebbe di essersi imbattuti in una sorta di ‘dream team’ di giovani romanzieri e giallisti. Stiamo parlando di Michael Chabon, Stephen King, Elmore Leonard, Rick Moody, Nick Hornby, Micheal Crichton, Dave Eggers e molti altri. Tutti insieme per il decimo numero di McSweeney’s, la rivista letteraria cult a stelle e strisce nata dal genio di Eggers. Venti racconti per venti penne diverse, maestri del genere e talenti in ascesa, compongono La super raccolta di storie d’avventura – questo il titolo della versione italiana – curata da Michael Chabon. Solo sfogliando il volume ci si rende conto dei numerosi elementi innovativi, anche a livello grafico: dalla copertina stile anni ’50, alle false pubblicità inserite all’interno delle storie, all’impaginazione a doppia colonna, per concludere co n uno scritto di Jorge Luis Borges stampato a caratteri minuscoli sulla quarta di copertina. Filosofia McSweeney’s, appunto. Il libro è e deve essere, per loro, un prodotto fruibile e apprezzabile in ogni minimo dettaglio. Lo scopo, nobile, di questo volume è aiutare la scuola di scrittura per i ragazzi di 826 Valencia; l’intento, dichiarato a priori, è la ‘resurrezione dei generi perduti del racconto, una tradizione fatta di grandi scrittori che scrivevano grandi racconti’, come avverte lo stesso Chabon. Obiettivo quasi conseguito, a dire il vero. I nomi, quelli grandi, di spicco, altisonanti, ci sono tutti, proprio tutti. Ma fanno difetto alcune trame messe in campo. Esili come quella di Crichton: nove paginette in cui un uomo, messo di fronte al fallimento della propria vita affettiva, si ritrova ubriaco a incolpare la madre, degente in una casa di cura. Il figlio la minaccia con una pistola – che la donna chiama ‘il tuo piccolo pene’ – e, in un raptus di follia, le fa esplodere il cranio. Racconti noir, insieme a ‘gialli classici’, come quello di Leonard e del suo sceriffo Carl Webster, o avventure alla ricerca di sé, di un significato alla propria alla vita come in Tedford e il megalodon di Jim Shepard. Un percorso, quello di Tedford, pari a quello del libro, in cui la tensione sale, con la costanza e la sicurezza di essere sulla via di una scoperta abbagliante.
Emanuele Buzzi, Il Domenicale, 15/10/2001
La super raccolta di storie d’avventura
Da anni si sente parlare della mitica rivista letteraria americana McSweeney’s, fondata da Dave Eggers e impreziosita dai contributi dei migliori autori mondiali. Per la prima volta ora possiamo avere un assaggio della sua qualità grazie alla pubblicazione in Italia del numero 10, vero e proprio numero ‘all star’, curato da Michael Chabon e contenente racconti delle firme più celebri (del calibro di Stephen King, Nick Hornby, Michael Crichton, Jim Shepard). L’intento di questa raccolta è quello di riportare in auge un genere ormai passato di moda come quello del racconto d’avventura che tanto piaceva ai lettori degli anni ’50 e ‘60. Il risultato è un’antologia interessante e di alto livello, forse non del tutto rappresentativa del carattere sperimentale e azzardato che caratterizza gli altri numeri della rivista, ma decisamente efficace come biglietto da visita per un pubblico allargato di lettori.
Matteo B. Bianchi sul portale di Linus
LA SUPER RACCOLTA DI STORIE D’AVVENTURA 07/09/2004 di Partigiano_Johnny su scrivi.com
Un tomo di queste dimensioni non passa di certo inosservato, e nemmeno le firme di questi molteplici racconti contenuti in più di 450 pagine: Crichton, King, Hornby, Lenoard, Eggers, Chabon. Purtroppo però non si può dire che siano racconti memorabili, e forse le cose migliori vengono da autori semisconosciuti, come l’avvincente mini-spy story ambientata in una Germania sull’orlo del collasso nazista (Il caso del canarino nazista), oppure la bizzarra e onirica avventura da MacDonald di “Acqua passata”, senza dimenticare l’avvincente cyberpunk di “le memorie di Alberatine” di Rick Moody. Ma i grandi nomi steccano, scivolando in una prolissa storia sul Kilimangiaro (Eggers), in una breve e banale storia horror (King), o in una deludente chiusura di libro del curatore stesso, lo Chabon del bellissimo “Wonder Boys”. L’unica eccezione, e momento migliore della raccolta è la inquietante e divertente storia “Altrimenti è il pandemonio” di Nick Hornby, sicuramente il racconto che si ricorda più piacevolmente. Un libro comunque piacevole, non trascendentale ma spassoso, con finte pubblicità vecchio stile e illustrazioni a piena pagina che danno un certo spirito all’intera opera, quasi un’anima retrò anni ’50, e che sottolineano il carattere di puro intrattenimento di un genere letterario, l’avventura, che Chabon e gli altri si sono impegnati a portare alla ribalta con questa super raccolta.
Il racconto d’avventura rivive nel fumetto
di Vittorio Macioce da Emporion
E’ quasi un’ossessione. Michael Chabon ne parla a tutti, seccando amici, estranei e conoscenti. Va avanti così per quasi un anno. Imbarazzante. Stai a cena con lui, un menù tranquillo, una sera senza nubi, a San Francisco o magari a New York, una battuta sul tormentone single di “Friends” e un sospiro su Gorge Bush jr. e Chabon, senza alcun passaggio logico, tira di nuovo fuori la storia del racconto americano, che non ha più trama, introspettivo, noioso, con le stesse regole, sommerso sotto un medesimo canone. Poi la domanda: “Mi spieghi perché nessuno pubblica più romanzi d’avventura?”. Risposta: forse perché è un genere che non interessa. Forse perché non c’è nessuno che li scrive. Chabon non ascolta: “Fin verso il 1950 avrei potuto parlare di uno qualsiasi dei seguenti generi di racconti: racconti di fantasmi, dell’orrore, di investigazione, di suspence, del terrore, fantastici o macabri, di mare, d’avventura, di spie, di guerra, storici o d’amore. Racconti in altri termini con una trama. Basta dare un’occhiata a una qualsiasi polverosa antologia di racconti classici. Ma la cosa che ci sorprenderà di più sono i nomi degli autori di questi raccontini di basso livello: Poe, Balzac, Wharton, James, Conrad, Graves, Maugham, Faulkner, Twain, Cheever, Cooppard. Tutti pesi massimi della letteratura mondiale. I racconti brevi non venivano pubblicati soltanto da quei giornaletti di second’ordine che, per fortuna, ci hanno dato Hammett, Chandler e Lovecraft, ma anche dalle riviste più importanti e raffinate del tempo come “The Saturday Evening Post”, “Colier’s”, “Liberty”; persino dal “New Yorker”, che solo di recente – e non senza mille polemiche – ha fatto spazio nelle sue auguste pagine per nientepopodimeno che il Maestro con Tanto di Trama, Stephen King”.
L’ultima volta che Chabon ha fatto questo ampolloso discorso era in compagnia di Dave Eggers. Eggers lo ascoltava con aria distratta, come spesso fa, pensando e rimestando altre cose. “Senti – ha detto alla fine – se ti faccio fare da curatore esterno di un numero di McSweeney’s non è che potremmo darci un taglio a ‘sto discorso”. Chabon chiama diciotto scrittori, con lui e Eggers fanno venti. Tra questi ci sono Michael Crichton, Stephen King, Neil Gaiman, Rick Moody, Elmore Leonard, Nick Hornby. C’è anche Aimee Bender, la ragazza dell’histeric realism. E’ il numero 10 della rivista. Chabon ha messo fine alla sua ossessione e ha dato un senso ad un’idea che da tempo si respira nei club del romanzo: bisogna ricavare nelle trame e riaprire i pozzi di quella che un tempo era considerata cultura minore, dal fumetto ai romanzetti di genere. Chabon, naturalmente, non ha inventato nulla. Bastava, qualche decennio fa, una chiacchierata con Oreste del Buono o una lettura veloce dei racconti di Buzzati per arrivare alle stesse conclusioni. Quello che resta è un’operazione culturale che oggi, qui in Italia, ti viene da dire: giù il cappello. Sfogli McSweeney’s e ti rendi conto che è questa rivista, più ancora del suo romanzo d’esordio, l’opera struggente e geniale di Dave Eggers. Quando perlustri le librerie e l’edicole italiane è qualcosa del genere che vorresti trovare, qualcuno in grado di mettere un’orma sulla cultura, senza prendersi troppo sul serio, ma con una giusta dose di presunzione e personalità. Il racconto d’avventura è morto? Va bene, vediamo se siamo in grado di resuscitarlo. Si fa narrativa, ma è anche un modo per ragionare di letteratura. E in qualche modo una traccia la lasci, senza pontificare su chi siano i migliori scrittori noir italiani in circolazione, come fanno alcune riviste on line in odore di blog. La Mondadori ha acquistato i diritti del numero 10 di McSweeney’s e pubblicato i racconti. Il risultato è “La super raccolta di storie d’avventura” (Mondadori, collana Strade Blu, pagg. 455, euro 18,50).
Il racconto d’avventura non è morto, in realtà, ma – come ha capito anche Niccolò Ammanniti nelle tre storie di “Fa un po’ male” (Einaudi, pagg. 188, euro 14), sceneggiate da Daniele Brolli e disegnate da Davide Fabbri – vive bene nel fumetto. La storia editoriale di Bonelli, dai tempi di Tex e Zagor fino a Julia e Dampyr, è un ottimo esempio. Il problema era come riportare il gusto della trama nella narrativa senza nuvolette e didascalie. Il primo istinto è dire: saccheggiamo il fumetto, che ha sua volta ha già saccheggiato, e continua a farlo, la letteratura. Il secondo è scrivere un romanzo che è un omaggio al fumetto e, nello stesso tempo, fare buona letteratura. Qualche anno fa Michael Chabon scrisse “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay” (Rizzoli, 2001) e lì c’era già gran parte del suo mondo narrativo. Era una storia di Talmud e di cultura yiddish, di ragazzi in fuga dai fuochi nazisti dell’Europa, di un’America letta come sogno e opportunità, ma la trama correva lungo la storia del fumetto, quando al di là dell’Oceano riviste e giornali per ragazzi raccontavano la nascita dei super-eroi. Era l’era di Superman, mito moderno e ottimista nel quale Chabon riversava la leggenda ebraica del Golem. In questo gioco di tradizione, avventura e cultura popolare c’era spazio per un eroe di carta che Chabon ha inserito, come un falso d’autore nella storia del fumetto.
L’escapista era il vero protagonista del romanzo, simbolo della fantasia che fugge dagli orrori dell’ideologia. Chabon si è divertito a riprodurre nel libro caratteri, icone, frammenti, disegni dei pionieri della matita. La stessa formula che si ripete nell’antologia di McSweeney’s, con le copertine delle riviste commerciali del primo Novecento, con scafandri e sommergibili, le ventimila leghe sotto i mari, l’Africa nera di Tarzan, le nevi eterne degli Ottomila dove prima o poi qualcuno incontrerà lo Yeti, l’orrore casereccio senza effetti speciali, con gli omini verdi che vengono da marte, con l’eterna tentazione della macchina del tempo (da leggere “Il secchio di Chuck” di Chris Offutt e “Altrimenti è il pandemonio” di Nick Hornby). E forse l’aspetto più interessante dei racconti di McSweeney’s è vedere Stephen King o Michael Crichton adattarsi e giocare con questa nostalgia da rigattiere, da bancarella da libri usati, con tutto l’amore che può avere un bibliofilo per il fascino di una vecchia copertina, con la cura del filologo per il romanzo d’avventura. Con un incipit come quello del racconto “La danza fantasma” di Sherman Alexie: “Due poliziotti, uno massiccio e l’altro minuto, viaggiavano nelle tenebre”. Con un titolo come quello di Elmore Leonard, “Come Carlos Webster cambiò il proprio nome in Carl e divenne un famoso sceriffo dell’Oklahoma”. Con Aimee Bender che mette in scena una classico delitto da camera chiusa.
Quell’odore da rigattiere è lo stesso che deve aver annusato Umberto Eco per “La misteriosa fiamma della regina Loana” (Bompiani). C’è molto Chabon nell’ultimo romanzo di Eco. Come d’altra parte c’era qualcosa di Eco nei romanzi di Chabon. Ma in quel solaio tra le Langhe e il Monferrato – dove Yambo-Eco riscopre i miti minori del Ventennio, riassaporando Salgari e Flash Gordon, Mandrake e Fantomas, togliendo la polvere alle copertine di Nick Carter o del Giornale illustrato dei viaggi, rileggendo Edgar Wallace o la “Strana morte del signor Benson” – c’è la stessa ossessione di Chabon. La regina Loana è un Kavalier e Clay all’italiana.
Antologie di racconti, con retroterra a fumetti Panorama con tavole. Illustrative, oh yes!
di Giovanni Prensipe, dal sito ANAFI
Consiglio urgente agli estimatori e appassionati dell’arte di Howard Chaykin: «guardatevi con gusto, ammirate con rispetto le immagini che accompagnano questo articolo». Perché sono immagini molto gradevoli, perché sono illustrazioni e non fumetti, e soprattutto perché sono eseguite appositamente per l’opera di cui parleremo poi, nelle righe successive. A questo punto, ovviamente, si rende opportuno un cammino alla rovescia, che invade un territorio diverso da quello strettamente «a fumetti». Cominciamo dunque col dire che Michael Chabon è un bizzarro scrittore, che sembra fatto apposta per coloro che, lettori di romanzi, lo siano anche di fumetti. È dello spirito di questi ultimi, infatti, che si nutre il più celebrato dei suoi romanzi, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay (in Italia: Rizzoli, 2001). Il quale racconta – siamo negli anni Trenta – come Joe Kavalier, fuggito dall’invasione nazista di Praga, giunga in America dove, insieme al cugino Sammy Clay, sceneggiatore, dà vita al supereroe a fumetti e raddrizzatore di torti L’Escapista, che ottiene uno straordinario successo. Il romanzo è ben più complesso – 820 pagine! – di quanto non traspaia da questo semplice cenno, ma qui risulta abbastanza evidente come vi si adombri in qualche modo la creazione, la vita, il successo e i tempi di Superman: il tutto narrato brillantemente e con grandissima suggestione da Chabon. Il quale, scrittore di successo oggi quarantenne, non fa mistero di quali siano le radici della propria cultura: fumetti e racconti d’avventura dei pulp magazines o di riviste del genere. Ed è proprio a queste ultime che egli ha inteso rendere omaggio curando un’antologia di racconti uscita in America (nel lontano 1992) come numero speciale della rivista McSweeney’s, e ora pubblicata anche da noi col titolo La super raccolta di storie d’avventura (Mondadori, 456 pp., 18,50 Euro). Qual è, in questo caso, la divertita operazione, tradotta in una acuta intuizione da Michael Chabon? È quella di invitare alcuni autori della categoria «sulla cresta dell’onda» a scrivere a loro piacere un racconto del tipo «dei tempi d’oro» delle pulp magazines. Ecco dunque coinvolti Elmore Leonard, Neil Gaiman, Nick Hornby, Stephen King, Michael Crichton, accanto ad altri di minore notorietà – Michael Moorcock, Harlan Ellison, lo stesso Michael Chabon e molti altri – impegnati in racconti d’avventura, senza preclusione di generi. Per cui l’antologia – 20 racconti – spazia ovunque, non solo suspense, thrilling, orrore, fantasmi, ma anche western, guerra, spionaggio, fantascienza, rosa, e via discorrendo.
Ciò che ne risulta è un mosaico estremamente variegato, attraverso il quale ci si immerge nel piacere di un tipo di lettura senza dubbio «di altri tempi», caratterizzato da un accostamento di racconti, quasi sempre illustrati. Un filone editoriale, a dire il vero, che nella tradizione italiana non è mai stato fortunatissimo. Più che altro, le riviste italiane del genere – magari con retroterra e addentellati fumettistici – sono state legate al genere giallo, come ad esempio la Ellery Queen’s Mistery Magazine, poi però finita per asfissia in appendice al Giallo Mondadori. Solo negli anni Cinquanta, qualcosa c’è stato nel settore western, come West Selezione, che però si reggeva soprattutto sulla presenza di un romanzo del Coyote. L’unico vero esempio notevole, sempre in quel torno d’anni, corrisponde alla splendida Select, che proprio per essere stata così eccezionale durò la breve stagione di quattro numeri. Di molto gustoso, in questa Super raccolta, c’è il piacere di ricreare in tutto e per tutto lo spirito del tempo. Il testo è composto in due colonne, proprio come i pulps e – come allora – le pagine sono qui contrappuntate qua e là da riproduzioni di pagine pubblicitarie d’epoca; i titoli dei racconti sono integrati da un succoso occhiello, che fornisce una breve sintesi a sensazione del racconto e la pagina iniziale è spesso accompagnata da un’illustrazione, affidata alla mano di quel mostro sacro dei fumetti che è appunto l’Howard Chaykin di cui si diceva all’inizio. Una full immersion, dunque, in un tempo «altro», capace di restituire i sapori del «come eravamo». O per meglio dire, di farci assaporare «come erano» negli States, com’era un certo sottofondo di quella America favolosa di cui si fantasticava qui da noi durante l’imperante e castrante regime fascista che tutto censurava (si racconta perfino che – essendo precluso anche il jazz, la Saint Louis Blues, per poter passare attraverso le maglie censorie dovette essere tradotta San Luigi Blu). Di quella America, insomma, di cui si innamorarono scrittori italiani di altissima cifra, da Elio Vittorini a Beppe Fenoglio, a Oreste del Buono a Giuseppe Trevisani a tantissimi altri, che seppero poi travasare questo loro amore a colleghi delle generazioni più giovani. E ci viene da pensare con tristezza quanto fosse diversa quella America da questa di adesso, così sprezzante verso la libertà del mondo sotto l’impero dei Bush, padre prima e figlio piccolo adesso.