Uno dei grandi maestri segreti: Stephen Dixon, Vecchi amici
di Gaja Cenciarelli da Vibrisse
Vecchi amici di Stephen Dixon (trad. Anna Mioni, Terre di Mezzo 2006) è la storia di un’amicizia al maschile, che tuttavia ha avuto modo di nascere grazie alla mediazione di Katya, ‘temporanea’ compagna di uno dei due. Preoccupata che Irv si annoi, gli comunica che nei paraggi abita un altro scrittore, con cui, per ammazzare il tempo, potrebbe provare a fare conoscenza. Katya scomparirà presto, ma l’amicizia tra Irv e Leonard durerà trent’anni. È un libro la cui particolarità ‘fisica’ – non esistono capoversi che introducano nuovi paragrafi né discorso diretto – mi ha colpito solo dopo un paio di giorni che me lo rigiravo tra le mani, e la potenza di questa rivelazione ha innescato tutta una serie di riflessioni. È un romanzo che appare sulla pagina come un blocco unico, una sequela di parole saldamente legate una all’altra senza soluzione di continuità. La narrazione è un flusso di coscienza ininterrotto, in cui le telefonate e le lettere tra Irv e Leonard, e di entrambi alle rispettive mogli o compagne, si inscrivono quasi sottovoce, quasi a voler far sottostare i personaggi al potere della storia, come se i personaggi non fossero la storia ma la subissero. E, in effetti, Dixon ha davvero voluto scrivere – tramite Irv e Leonard – una sorta di elogio della banalità. Irv e Leonard sono due uomini talmente comuni che è inevitabile provare simpatia per loro, identificarsi nelle loro idiosincrasie, giustificarli o provare a comprenderli anche quando – come Leonard – si lasciano vivere, seguendo, più per forza d’inerzia che per reale volontà di cambiamento, qualsiasi donna graviti nel loro campo d’azione.
Faccio lo scrittore, quindi la cosa in cui sono più bravo è fare il bugiardo
dice Leonard a Irv, in uno dei suoi monologhi-fiume al telefono, mentre racconta all’amico della sua relazione extraconiugale con un’allieva del corso di scrittura creativa. Leonard è nato dopo la morte del fratello maggiore ed è perfettamente consapevole che, senza quella morte, lui non sarebbe mai esistito. L’avarizia del padre e della madre, soprattutto della madre, abbraccia ogni aspetto della vita quotidiana: i soldi, i sentimenti, l’affetto, i rapporti umani. Il piccolo Leonard viene gravato di sensi di colpa, gli si impedisce di frequentare i compagni di scuola, paragonandolo continuamente al figlio morto. Leonard è una creatura da cui prendere amore, atteggiamento che conferma l’aridità dei genitori, sempre orientati verso l”avere’ piuttosto che verso il ‘dare’. Esilarante (e malinconico) l’elenco dei non che costellano la vita di Leonard:
Leonard non beveva nessun tipo di caffè e l’unico tè che beveva era quello deteinato. Non aveva mai fumato, nemmeno un tiro. Mai preso un allucinogeno o droga di quel tipo; forse aveva mangiato un paio di biscotti alla marijuana per sbaglio a una festa, ma se l’aveva fatto, e così gli avevano riferito, non avevano fatto effetto. Non aveva la patente e non aveva mai fatto domanda per averla e da bambino non aveva mai desiderato di guidare o possedere una biciletta o un macchina. Non era mai stato in Europa, non aveva mai voluto uscire dal Paese. Non era mai stato in una fattoria, ma ne aveva viste alcune dall’autobus quando l’avevano portato al campeggio estivo. Aveva paura di tutti gli animali, tranne gli uccellini canori e la maggior parte dei cani e dei gatti. Eventi culturali come le opere liriche e i concerti di musica seria non li apprezzava e non li capiva e quanto alle opere liriche, non riusciva a capire cosa dicessero, anche quando cantavano o parlavano lentamente in inglese. Non gli piaceva leggere poesie o critica letteraria o altro sulla letteratura, se non ogni tanto qualche recensione di libri o la prefazione di un qualche scrittore alla riedizione del suo romanzo o della corposa antologia di racconti, perché spesso li trovava lenti e non capiva cosa volesse dire il poeta o il critico
L’aspetto più sorprendente dell’intero libro è che a pagina trentanove (il romanzo consta di centosessanta pagine) già conosciamo il destino di Leonard e di Irv: il primo verrà ricoverato in un ospizio, vittima della demenza senile, mentre Irv, anche lui insegnante, dovrà prendersi cura della moglie, malata e costretta su una sedia a rotelle. Esperienze speculari, a ruoli invertiti. Dopo la malattia di Leonard – figura tragicomica, la sua, che per più di un verso ricorda il Barney Panofski di Mordecai Richler – l’interlocutore di quasi tutte le telefonate che Irv farà a casa dell’amico sarà la seconda moglie, Tessie (l’allieva del corso di scrittura creativa per la quale Leonard lascerà Suzanne e dalla quale avrà due figli). Irv, dal canto suo, non smetterà di scrivere, prendendo spunto dalla malattia della moglie Loretta, che non gradirà di essere trattata come ‘oggetto letterario’, insistendo affinché il marito si adoperi per ‘romanzare’ un po’ la storia e renderla meno riconoscibile. Per uno scherzo del destino, Leonard, che ha vissuto tutta la propria vita in funzione delle parole, viene privato della facoltà di parlare, di pensare, di ricordare. Dunque, l’unico interesse che Irv e Leonard avevano in comune si volatilizza, ma l’amicizia rimane salda, resiste alla distanza e alle malattie. Per un secondo, ancor più crudele scherzo del destino, Leonard, che non è mai voluto andare in Europa perché negli Stati Uniti
c’è tutto e costa meno
è – come Loretta – costretto dalla malattia a restare per sempre nel suo Paese, sperimentando su di sé le contraddizioni del sistema sanitario americano e l’atteggiamento dell’America nei confronti dei malati. Una delle scene più toccanti arriva alla fine del libro. Quando Irv va a trovare l’amico in ospizio, Leonard gli urla di voler fuggire, che dev’essersi cacciato in qualche grosso guaio per trovarsi in un posto così orribile, e che Irv deve aiutarlo a vestirsi e a scappare. Irv non vuole lasciarlo in quello stato. Gli dice di calmarsi: lui ora deve andarsene, non può assentarsi troppo, sua moglie è malata e potrebbe capitarle un incidente se rimanesse troppo da sola. Al che Leonard risponde:
Ve ne andate sempre, tutti quanti. Svolazzate, sbiellate, ma ve ne andate. Proprio quando le cose stavano andando bene e stavamo parlando e ridendo su quanto eravamo idioti una volta, e tu sei venuto a trovare me, e non una barbona qualunque, giusto? Da quant’è che sei qui, cinque minuti, dieci?
No, Irv è lì da più di un’ora, ma Leonard ha perso la concezione del tempo. Accompagna l’amico all’uscita, dimentica il codice per chiamare l’ascensore, se lo fa dare da un inserviente e dice addio a Irv, senza smancerie, senza baci. È così che si comportano gli uomini, secondo Leonard. Ed è proprio questa abilità dell’autore a fare in modo che la tragedia – in tutta la sua beffarda ‘normalità’ – parli da sé, a costituire il cardine del romanzo. Non c’è mediazione di narratori extradiegetici, il dolore e le malattie hanno dignità letteraria e si mostrano nudi, spogli di qualsiasi orpello o riflessione, sulla pagina. E sono uno schiaffo potente. Vecchi amici è un libro che parla di persone ‘comuni’ nel senso più nobile della parola. Irv e Leonard sono amici come milioni di persone in tutto il mondo. Eppure è proprio questa ‘banalità’ a renderli interessanti. Nelle loro continue telefonate, nelle reazioni irritate alla malattia, c’è la quintessenza dell’essere umano e, soprattutto, c’è una lingua letteraria e ‘parlata’ al tempo stesso, che in italiano si deve alla sapiente traduzione di Anna Mioni. D’altra parte, Stephen Dixon è notissimo in patria. Ha pubblicato ventisei libri e più di cinquecento racconti, ha vinto una quantità di premi ed è stato due volte finalista al National Book Award con i romanzi Frog e Interstate. Con Vecchi amici è al suo debutto in Italia: progresso notevole rispetto a Leonard, che non ha mai voluto venire in Europa, perché non gli piaceva l’idea di lasciare a casa la macchina da scrivere.
recensione di Mangialibri
Vecchi amici Stephen Dixon (Terre di Mezzo 2006) Irv e Leonard hanno un paio di cose in comune. Si sono trasferiti in una piccola cittadina nei dintorni di Rockland, tanto per cominciare. E poi sono entrambi scrittori, di quegli scrittori la cui carriera non è mai decollata, ma che comunque vantano qualche racconto pubblicato su riviste prestigiose, una assidua frequentazione dell’ambiente letterario, insomma una onesta manovalenza intellettuale. Così è anche la loro vita, piena di malinconia, malattie, tradimenti e piccole tragedie, ma senza esagerare. Leonard soprattutto è un uomo pieno di fissazioni ed idiosincrasie, con un matrimonio difficile e infelice, che intreccia relazioni con vicine di casa più giovani di lui e si attira il disprezzo dei figli. Attraverso la sua storia e i riverberi su quella di Irv, Stephen Dixon, professore alla Johns Hopkins University e pluripremiato protagonista della moderna fiction statunitense sembra voler descrivere in tutte le sfumature l’argomento vecchiaia. Senza affondare le dita nella povertà, nella solitudine e nel degrado, ma senza nemmeno negarsi il declino della sessualità e le sue conseguenze, la volgarità della decadenza, la tristezza della morte. Un libro dal procedere atipico e sghembo e dalla insolita, dolente profondità.