Le conseguenze è incentrato sulle vicende di una famiglia di Roscommon, cittadina dell’entroterra irlandese, i cui abitanti a detta dei personaggi del romanzo parlano un inglese diverso da quello di Dublino, a sua volta ricco di particolarità. E infatti la traduzione riesce a rispecchiare con naturalezza la forte colloquialità dell’originale, senza però mai sfociare nel regionalismo o nell’abbassamento eccessivo del registro. Quali sono state le maggiori sfide che hai incontrato nel confrontarti con un linguaggio tanto specifico, dal punto di vista spaziale?
AM: Direi soprattutto quella di distinguere le sfumature locali. Oltre a un mese passato in una residenza per traduttori, in Irlanda ero stata solo per brevi viaggi; e la full immersion in letture irlandesi fatta in passato (soprattutto Beckett, Joyce, Flann O’Brien, ma non solo) e nella musica rock e folk non bastavano a garantirmi la sicurezza assoluta. Nonostante abbia lavorato con vari dizionari di Hiberno-English sia online che in volume, alcune accezioni erano rintracciabili solo in pubblicazioni vive e correnti, come l’Irish Times o qualche forum online. Per questo motivo ho insistito con l’editore perché scegliesse un revisore che avesse anche forti competenze nell’inglese d’Irlanda: Federica Aceto, che ha vissuto e studiato a lungo a Dublino, durante la revisione mi ha aiutata a sciogliere dubbi su varianti, o a capire meglio sfumature di uso quotidiano; e in un paio di casi abbiamo potuto chiedere chiarimenti sulle parlate locali a suoi amici irlandesi. Per il gaelico, invece, ho trovato dizionari e frasari online molto esaurienti; la decisione di lasciare il gaelico nel testo e la traduzione in nota nasce per dare un colore locale più spiccato. Per quanto riguarda le varianti dell’inglese d’Irlanda, le ho rese tramite le diverse sfumature di registro. Non avvalermi di regionalismi è una scelta precisa; ritengo azzardato tradurre le parlate straniere regionali con parole dialettali italiane: scegliere quale dialetto usare sarebbe impossibile, e comunque incongruo rispetto all’ambientazione estera del romanzo.
Il linguaggio del protagonista, voce narrante del romanzo, presenta anche ulteriori sfide rispetto al colorito locale. È molto colloquiale, diretto, ma a volte ricorrono espressioni molto liriche che fanno vedere in controluce la familiarità e le lunghe esperienze dell’autrice con la poesia; come è stato cercare di tradurre questa ambiguità, raggiungendo l’equilibrio che caratterizza il romanzo?
AM: Questo libro è stato un felice caso di sintonia epidermica tra me e l’autrice. Forse perché anch’io ho iniziato con la poesia, e le mie primissime esperienze di traduzione partono da lì (ancora alla scuola dell’obbligo), sono particolarmente sensibile al linguaggio poetico e simbolico, e riesco a sospendere l’incredulità e a lasciarmi prendere dalla lingua allo stato puro. È un processo del tutto inconscio, “di pancia”, che quindi non va alla ricerca di normalizzare l’originale, ma di valorizzarne l’originalità stilistica, sonora o metaforica. C’è stato un ascolto attento di assonanze e allitterazioni, che dove possibile sono state riprodotte. E lo sforzo di aderire il più possibile alle metafore originali scelte da Caoilinn Hughes, tranne in pochi sparuti casi, nei quali l’autrice ha autorizzato una resa più orientata alla comprensione che alla fedeltà.
Ti va di raccontarci il lungo processo dialogico con l’autrice, la quale in varie occasioni ti ha ringraziato dei commenti puntuali e stimolanti che le hai fatto; ti era mai capitato di collaborare con l’autore o l’autrice di un testo? In che modo questa opportunità di dialogo con l’autore cambia il prodotto finale della traduzione, secondo te?
AM: Se traduco un autore vivente, cerco sempre un dialogo se lo ritengo necessario. A volte non serve, per esempio ho appena consegnato una traduzione in cui era tutto talmente chiaro che non ne ho avuto bisogno. Nel caso di romanzi molto letterari capita più spesso, invece. Di solito cerco di disturbare gli autori che traduco solo quando le fonti consultate non mi lasciano indizi sufficienti per decidere con certezza. Il caso più tipico è una parola o locuzione inglese che ha molti traducenti in italiano, che il contesto non aiuta a chiarire. O una metafora che non sono sicura di avere capito al cento per cento. Cerco sempre di proporre una o più soluzioni, per ricevere conferma o smentita: mi sembrerebbe offensivo chiedere chiarimenti senza proporre le mie soluzioni. Con Caoilinn Hughes il dialogo è avvenuto in due parti: le mie domande sulla prima stesura della traduzione, e poi quelle generate dagli interventi di revisione di Federica, e dai suoi dubbi. Durante la revisione, Federica ha proposto correzioni e varianti, e nei casi che restavano dubbi ho sottoposto le alternative alla Hughes. In entrambi i casi c’è stato anche un costante interrogarsi su cosa era comprensibile per il pubblico italiano senza essere troppo straniante o specifico; la Hughes ha vissuto per un po’ di tempo in Italia e ne conosce la cultura e anche un po’ la lingua, e questo è stato molto d’aiuto. L’opportunità di dialogare con l’autore elimina il rischio di fraintendere completamente alcune similitudini, immagini o accezioni di non immediata chiarezza. Quindi toglie un po’ di responsabilità al traduttore, e di sicuro migliora il prodotto finale, avvicinandolo di più a una resa verosimile (anche se non potrà mai esserlo del tutto).
In particolare, nei ringraziamenti del romanzo, la Hughes sottolinea la tua capacità di comprendere a fondo gli “insulti, le battute e le ingiurie” del romanzo; espressioni che sicuramente pongono non poche difficoltà a un traduttore, e di cui questo libro è costellato! Come hai cercato di rendere queste espressioni? Avvicinandole all’orecchio del lettore, o piuttosto cercando di rispecchiare la loro provenienza da una cultura altra?
AM: Di nuovo, si tratta per me di un processo soprattutto inconscio, che si svolge sintonizzandosi con la voce dell’autrice. Ma se dovessi scomporlo per spiegarlo, direi che prima di tutto, guardando il testo originale e i dizionari, cerco di capire dove si colloca ogni espressione nella lingua di partenza: quanto si scosta dalla norma dell’uso? È un registro elevato, normale, basso, bassissimo? Il tono è serio, ironico, grottesco? La collocazione cronologica è moderna, antiquata, contemporanea? Una volta identificati gli scarti dalla norma, cerco di riprodurli con un traducente italiano che risponda agli stessi requisiti, ma che sia radicato nell’uso italiano. Quindi non si tratta di voler rispecchiare per forza la provenienza da una cultura altra, ma di far vivere al lettore italiano un’esperienza il più possibile simile a quella che vive il lettore in lingua originale. Se per fare questo è necessario rimarcare l’alterità, lo faccio. Se non serve, non lo faccio. In fondo leggere un libro in traduzione significa (o dovrebbe significare) essere consapevoli a priori che il testo è stato scritto in un’altra lingua.