lunedì 2 giugno 2003 LA VETRINA DI ZOOOOM
Una voce italiana per Georgina Powers
di Anna Mioni
Phreak di Denise Danks per me è stata la prima esperienza di traduzione di un noir. Ma è stato facile entrare nel clima del libro perché la protagonista, la giornalista informatica Georgina Powers, è mia coetanea e si muove in una Londra che ha un ritmo, un milieu culturale e una colonna sonora molto affini a quelli delle mie letture/visioni/ascolti. Ho avuto poi due fortune: prima di tutto l’occasione di lavorare con un editor (Jacopo De Michelis della Marsilio Black) col quale nel corso di un anno abbiamo continuato a rimpallarci correzioni, intuizioni e interrogativi anche sui particolari più minuziosi del romanzo. E poi una gestazione del volume più lunga della media, grazie alla quale sono potuta tornare più volte sul testo e approfondirne tutti gli aspetti, cosa di solito resa impossibile dai tempi sempre più serrati della catena di montaggio editoriale (perché tale sta diventando). La voce di Georgina quindi mi ha accompagnata per un anno e mezzo, tra traduzione e bozze, con la sua cadenza solo all’apparenza disincantata, che in prima persona dialoga con noi o con gli altri personaggi.
È stato stimolante trovare una voce italiana per questo personaggio di donna moderna, che della modernità coglie i vantaggi ma anche i prezzi da pagare. Una che conosce bene i riferimenti culturali che vanno di moda in quel periodo (Pulp Fiction su tutti) ed è anche in grado di tener testa verbalmente a un malavitoso dell’East End londinese. Una che è priva di peli sulla lingua, ma dopo gli eventi più drammatici trova un suo lirismo emotivo.
I dialoghi del libro sono incalzanti, e prevalentemente informali, salvo i colloqui coi poliziotti. Scambi di battute salaci e concitati, intervallati da una prosa descrittiva raramente priva di ironia e comunque sempre molto moderna, con alcune virate nella terminologia tecnica informatica. Mille tematiche affiorano tra le pieghe del libro, grazie alla penna di un’autrice donna che anima un personaggio a sua volta donna, umanizzando un genere narrativo che spesso è terreno privilegiato di “uomini duri” e poco incline alle sfaccettature delle relazioni interpersonali. Eccoci quindi alle prese con storie d’amore e di sesso, con i problemi di integrazione culturale delle minoranze etniche londinesi, con aborti e gravidanze, amicizie in crisi. E con un gruppo di ventenni che si muovono a loro agio nel mondo del phreaking, lasciandosi inconsapevolmente stritolare in un ingranaggio più grande di loro.Il tutto sullo sfondo di una Londra reduce dall’orgia dell’ecstasy e in preda a una modernizzazione plumbea, in cui a volte si stenta a distinguere la realtà violenta e frenetica da un videogioco, col rischio di credere che anche nella vita vera basti salvare il file per ricominciare la partita.
L’incipit
I had a few problems with the body. One, I knew who it was. Two, I didn’t know if he was breathing. Three, he had my lipstick on the front of his University of Santa Cruz Banana Slug T-shirt.
Abdul Malik lay among rubbish bags at the bottom of a large metal drum, his head twisted this way and his body that. Ten foot off the ground, I held on to the rim of the bin and looked down at him. Chronic Delaney was next to me holding tight too, staring down, like me, into the shadows. The sweet and sickly smell rising up on the night air reeked of interminable decay, of wet plastic, damp paper and the rotting remnants of quick lunches. My fingers ached and gave way and I slid down the cold steel to the ground. Chronic hung for a moment longer before he followed.
“What do you think?” he said.
“I think he’s dead,” I replied.
“You do?”
“Yup.”
“Oh, shit.”
Avevo qualche problema col corpo. Primo, sapevo di chi era. Secondo, non sapevo se respirava ancora. Terzo, aveva uno sbaffo del mio rossetto sul davanti della maglietta di Banana Slug, mascotte dell’Università di Santa Cruz.
Abdul Malik giaceva tra i sacchi dell’immondizia in fondo a un grosso cassonetto di metallo, con la testa girata da una parte e il corpo dall’altra. Io ero aggrappata al bordo del cassonetto, a tre metri da terra, e lo guardavo. Di fianco a me c’era Chronic Delaney, anche lui aggrappato a scrutare nell’oscurità. Il puzzo dolciastro e nauseante che saliva nell’aria della sera era di putrefazione infinita, plastica bagnata, cartacce unte e resti marci di pranzi da fast-food. Mi facevano male le dita; cedettero e scivolai lungo l’acciaio freddo fino a terra. Chronic restò aggrappato per un secondo in più prima di fare lo stesso.
“Che ne pensi?” chiese.
“Penso che è morto” risposi.
“Davvero?”
“Seh.”
“Oh cazzo.”